Dopo quattro film realizzati negli Stati Uniti, Gabriele Muccino è diventato a tutti gli effetti un regista di Hollywood. Produzioni impensabili per il nostro cinema, una schiera di attori di prim'ordine e un linguaggio che si fa sempre più internazionale. All'incontro romano per la presentazione di Padri e Figlie, "Muccino Senior" ha raccontato come si sente fortunato e come, nonostante tutto, sia sempre rimasto sincero e fedele a se stesso. Elemento cardine che, fra l'altro, è evidente nella sua ultima fatica.
"Per lavorare a Hollywood, qualunque regista deve attraversare un lungo percorso: realizzare un film indipendente, farsi notare... Io invece sono volato sopra la testa di milioni di registi che speravano di fare quello che andavo a fare io, battendo anche una concorrenza validissima. Will Smith era convinto che solo io al mondo potessi fare La ricerca della felicità. È un mistero che ancora non mi spiego. È una storia assurda, ma è la mia storia". Così Gabriele ricorda il suo ingresso nella scintillante produzione statunitense, con gli occhi colmi di stupore che chiunque di noi avrebbe. E poi ridimensiona tutto, perché ciò che a noi sembra grande, a Hollywood non lo è poi così tanto: "La ricerca della felicità aveva un budget da 60 milioni, con una star che invece di 20, suo normale cachet, ne prese 10 perché non lo considerava un blockbuster. Anche io, non avendo mai fatto film drammatici, pensavo che non avrebbe incassato. Nessuno ci credeva, invece è andato benissimo".
Se hai successo, puoi fare quel che vuoi
Elegante, più magro dell'ultima volta che lo abbiamo visto, molto spiritoso, Gabriele è ben conscio di dove lo potrebbe portare la fama, ma non perde di vista ciò che lui desidera: "Dopo La ricerca della felicità, avrei potuto fare tutto a Hollywood, ma ho rifiutato molte proposte. Il mio essere regista è pilotato solo dall'urgenza di raccontare qualcosa di personale. Non so fare film come Twilight, non credo nei vampiri, cosa potrei raccontare io? Ho fatto una scelta, magari discutibile, perché non vivrò di rendita tutta la vita. Faccio film d'arte, come li chiamano gli studios, difficili da mettere insieme, ma che quando mi capitano sono per me come il miele per l'orso".
Padri e figlie è certamente un film d'arte nell'ottica degli studios, ma per noi che conosciamo la filmografia di Muccino sin dal suo primo lavoro, sappiamo come ami tornare sul tema della paternità, per esplorarla sempre di più. "In realtà ho provato a fare anche altri film, per esempio uno di fantascienza che finalmente forse riusciremo a girare. Ma questo tema mi tocca e mi emoziona. È l'urgenza che ho di raccontare. Non credo che potrò fare un film migliore su questo tema". È pienamente cosciente della maturità raggiunta con Padri e figlie, Gabriele Muccino, e lo spiega senza false modestie, aprendosi anche pericolosamente a una platea di critici che spesso (anche ingiustamente) gli è stata ostile: "Questo è stato un film complicato: è un'unica storia con sotto-trame che si intrecciano e arricchiscono il film. È stratificato, è il più compiuto dei miei film. Impatta una zona del nostro subconscio che risponde a un'emotività che non è calcolata, ma è come un'onda che cresce durante la visione. Racconta qualcosa di profondo e onesto, senza nessuna mediazione o interferenza".
A Hollywood non sono rose e fiori
Ma Hollywood non è il Paese dei Balocchi, e il rischio maggiore è sempre quello di venire etichettati. "Oggi gli studios fanno film per vendere giocattoli: Marvel, Star Wars, e i vari franchise come Hunger Games o Twilight, rifanno Mary Poppins! Si avvitano su loro stessi, è una cosa che ciclicamente avviene a Hollywood", dice Gabriele, ma senza alcuna nota polemica, solo con consapevolezza. Anche per lui non è stato sempre facile: "Ho fatto l'errore di pensare che Hollywood fosse quella in cui mi aveva introdotto Will Smith, invece poi mi hanno legato le mani in ogni modo. Per Quello che so sull'amore, Gerald Butler si scriveva letteralmente le scene, e voleva recitare a modo suo, io non potevo dire niente. Con quel film mi è quasi venuta un'ulcera! Questa volta è stato diverso: se non avessi potuto fare a modo mio, avrei abbandonato il set. I produttori hanno rispettato la figura del regista-autore, anche perché sono produttori europei".
Padre e figlia: lavorare con i protagonisti
Nei panni del padre premio Pulitzer caduto in ambasce e della figlia ormai adulta e ragazza interrotta ci sono due attori assolutamente straordinari. Muccino ne è pienamente consapevole, ma la scelta non è stata semplice. "Ora che conosco Russell Crowe, posso garantire che è il Gladiatore. Non ha impersonato quel ruolo, lui è così. Può fare tanti ruoli, ma ha quella fisicità e quella forza. Ho girato prima tutta la parte con Amanda Seyfried. Lui arrivò in corsa, molto stanco. Aveva finito il suo film e il tour promozionale di Noah. Mi sono chiuso in casa sua e gli ho fatto vedere un paio di ore di convulsioni su YouTube! Abbiamo parlato di convulsioni per due giorni. Per il resto, in passato lui è stato giornalista, quindi era familiare con il mezzo, è padre, è un combattente, è la fisicità che gli rema contro in un ruolo così intimista. Non è stato facile, né per me, né per lui".
Meno ovvio è stato trovare Katie: "Il ruolo di Amanda era molto ambito: molte attrici lo volevano, ma quando incontrai lei, vidi che dietro la sua fanciullezza apparente c'è un mondo. È un ruolo scivoloso: avevo timore che il pubblico non avesse simpatia per una giovane che va a letto con molti uomini. La sfida era far comprenderne le ragioni e partecipare al suo travaglio nell'autodistruggersi e distruggere il rapporto che potrebbe salvarla. Amanda ha un grandissimo talento; ho fatto perno sui suoi punti deboli, sulle sue fragilità per renderla simile a Katie".