Il futuro tecnologico sullo schermo, grande o piccolo, assume spesso le sembianze cupe e minacciose della distopia, e non di un lucido viaggio immaginario lungo i sentieri del possibile. Negli ultimi anni le serie tv sono state terreno assai fertile d'esplorazione per questi incubi ad occhi aperti, complice una tendenza rinvigorita da Black Mirror e arrivata fino a una delle ultime novità in casa Netflix, la serie francese Osmosis. Sembra che la tecnologia più che prometterci progressi, ci causi nuovi timori. Siamo in grado di immaginare il futuro, ma non ancora di trarre conclusioni su di esso, riteneva Nietzsche in Umano, troppo umano, e forse proprio qui risiede l'origine delle paure dinnanzi all'innovazione: nell'incapacità di star dietro alle nostre scoperte. Intelligenza artificiale, oggetti che comunicano fra di loro grazie all'internet delle cose, gli sviluppi delle neuroscienze, gli avanzamenti della robotica umanoide, la clonazione: oggi il progresso tecnologico è più che mai veloce. Sembra quasi che nel momento in cui ci si stia per abituare ad una innovazione, ecco dover rincorrere un nuovo cambiamento. Quanto è difficile non cadere nella vertigine di uno schermo spento, di quel "black mirror" che continua a proiettare all'infinito l'immagine smarrita di noi non ancora in grado di prevedere a cosa effettivamente condurrà lo sfrenato progresso tecnologico?
Proprio in questo viaggio attraverso l'ignoto delle nostre stesse scoperte, prolifera e ci viene in aiuto quel genere noto come science fiction (o fantascienza che dir si voglia), di cui forse oggi sono proprio le serie tv la più popolare espressione. Un catalogo sterminato di elucubrazioni a puntate, dalle astronavi di Star Trek fino al paranormale de I segreti di Twin Peaks, tutte riassumibili dalla tag-line di un vero e proprio cult del genere, Ai confini della realtà, che nel 1959 spalanca le porte televisive di quella quinta dimensione, infinita ed eterna: l'immaginazione. Che può prendere diverse strade: una delle più affascinanti riguarda sicuramente l'incontro tra esseri umani e macchine. Robot, umanoide, androide, può prendere diversi nomi ma l'essere artificiale perfetto di asimoviana memoria resta sicuramente uno degli archetipi prediletti della fantascienza, e ancor di più il rapporto conflittuale che spesso lo lega al suo creatore umano. Negli ultimi anni lo scenario si è molto ampliato, arrivando a includere software per la creazione di realtà virtuale, app destinate al controllo ossessivo di sé e degli altri, nanorobot, oggetti ipertecnologici di ogni tipo che possano rendere la vita degli esseri umani sempre più vicina a quella meccanizzata delle più sofisticate creazioni. Ma a quale prezzo? È a questo punto che la questione trascende la scienza e l'immaginazione e tocca il piano morale ed etico.
Dalla tenera Super Vicki alla furia di Dolores
Super Vicki
Ricordate la bambina robot dall'uniforme bianca e rossa? Non è stata lei il primo robot della Tv (con ]My living doll, per esempio, facciamo un salto indietro fino agli anni '60), ma è senza alcun dubbio il meno spaventoso. Andata in onda negli USA tra il 1985 e il 1989, Small Wonder ("piccola meraviglia" in originale), conosciuta in Italia come Super Vicki, è un'androide con le sembianze di una bimba di 8 anni che vive con la famiglia Lawson. Per dirla tutta è stato lo stesso signor Lawson a progettarla e portarla a casa. Dotata di una forza e di una velocità eccezionali, Vicky ha un solo "difetto": non interpreta parole e situazioni come un'umana ed è proprio da qui (e dal tentativo dei padroni di casa di farla passare per tale) che nasce la comicità della serie.
A guardarla a ritroso, Super Vicki è una vera pietra miliare in quello scenario di normalizzazione e avvicinamento ai progressi tecnologici, ed è forse il primo tentativo di rendere familiare il concetto di intelligenza artificiale presso un pubblico più vasto e generalista. Tanto è vero che il network aveva già in cantiere lo spin-off sulla gemella cattiva, Vanessa (interpretata dalla stessa attrice), ma la mossa non sarebbe stata perfettamente in linea con l'idea di creare un ponte tra "noi" e "loro", e il progetto fu abortito.
Alita - angelo della battaglia e le altre: quando Lei è un robot
Humans
É andata meglio, 30 anni più tardi, ad Anita/Mia e al gruppo di synth di Humans, serie tv inglese che ha esordito nel 2015 e, un anno dopo, anche in Italia su TimVision. Come Vicky, anche i Synth sono dei robot dalle fattezze umane, e come lei abitano le case delle persone con cui interagiscono. Prodotta da Channel 4 e AMC, remake della serie svedese Real Humans, lo show è ambientato in un presente parallelo in cui gli androidi vengono chiamati a svolgere lavori quotidiani sì, ma umili e spesso degradanti per le persone. Nell'esplorare il complesso rapporto tra umani e macchine, un tema classico della fantascienza, e nel predisporre lo schema per la parabola altrettanto classica dell'uomo che teme la rivolta dei robot (ma non solo, nella seconda stagione vengono infatti introdotte altre creature "postumane"), i due showrunner Sam Vincent e Jonathan Brackley pongono una questione di estremo rilievo: cosa distingue un essere umano da una creazione artificiale nel momento in cui il ricordo e la coscienza diventano sue componenti di base?
Westworld
Questa domanda posta in maniera ancora più pressante da Westworld. Il parco divertimenti più famoso della TV è stato in realtà creato nel 1973 dalla fantasia di Michael Crichton, sceneggiatore e regista del film omonimo. L'avventura dalle parti di Westworld è cominciata quando l'androide era ancora sogno. Un essere artificiale indistruttibile (o quasi), dalle sembianze umane ma con doti fisiche ben superiori, capaci di non fargli sentire fatica, capaci di renderlo imbattibile sul piano della velocità e della forza. Quello che Crichton immagina all'inizio degli anni '70 è una distopia molto lontana, realizzabile solo nella dimensione del "forse, un giorno", in cui anche gli androidi iniziano ad evolversi provando emozioni ed acquisendo coscienza di sé. Cosa succede quando un'intelligenza artificiale apprende il modo di formulare pensieri complessi e acquista una coscienza*, e per espressa scelta del suo creatore? Questo è quanto esplorano Jonathan Nolan e Lisa Joy riportando, nel 2016, il pubblico a Westworld. In un momento, cioè, in cui è prossima l'integrazione di un'intelligenza artificiale nei nostri dispositivi personali, nelle applicazioni che utilizziamo, negli oggetti che ci circondano.
In un parco in cui i confini tra umano e non umano sono ormai troppo sfumati, a condurre i giochi iniziali è una sola entità creatrice, il dottor Ford (Anthony Hopkins). È lui il burattinaio che crea a immagine e somiglianza ed è lui il dio sterminatore. Per mano di Ford si realizza il più grande sogno dell'uomo, l'immortalità, ma anche la più grande paura: la perdita della propria unicità. Gli androidi che lo scienziato crea non sono soltanto identici fisicamente all'uomo ma lo hanno anche "derubato" di quella singolare capacità di provare emozioni. Come? Attraverso quelli che nei laboratori di Westworld vengono chiamati ricordanze, ovvero ricordi che si materializzano come sogni ad occhi aperti e creano quell'input che porta Dolores e compagni a scoprirsi un bel giorno umani. Al di là di ogni ragionevole vendetta e di ogni scontro uomini vs androidi all'interno del labirinto dei parchi, la "sconfitta" umana, in Westworld, si è già realizzata nel momento in cui i meccanismi che generano emozioni sono stati replicati. Nel momento in cui, per intenderci, Bernard ha sofferto per aver scoperto la propria natura artificiale. Ed ha sofferto non per l'atto della nascita in sé, progettata a tavolino, ma per la menzogna dell'uomo di cui si fidava e che gli ha negato la piena conoscenza di se stesso.
Gli universi possibili
Black Mirror
Nata nel 2011 dalla fantasia di Charlie Brooker e in produzione per Netflix, Black Mirror esamina il rapporto tra esseri umani e sistemi tecnologici sempre più complessi, nel presente e nel prossimo futuro. Esempio supremo della fantasia distopica contemporanea, lo show britannico prende a piene mani dalle basi del genere fantascientifico e, in termini televisivi, da due esempi classici della dark fantasy come The Twilight Zone e The Outer Limits. Da quest'ultima in particolare Brooker riprende anche l'idea dei titoli di testa, con la rottura dello schermo che omaggia lo show anni '60 che, con un simile stratagemma grafico informava gli spettatori di aver preso il controllo dei loro apparecchi. Ciò che lega i diversi episodi di Black Mirror ai suoi storici antecedenti è semplice: la tecnologia di più comune utilizzo usata per parlare in termini metaforici delle ansie sociali e culturali. Niente di meglio per esprimere un concetto che entrare direttamente nelle case, ma Black Mirror sfuma tutti i confini, tra uomo e macchina, tra vita reale e vita virtuale, lo fa addirittura sul piano tecnico e narrativo con i generi. Come la fantascienza del XIX secolo ha fatto con la rivoluzione industriale, Black Mirror spinge l'esperienza dei personaggi e dello spettatore ad attraversare la rivoluzione digitale in atto, verso le sue proiezioni futuribili e la loro distopica conclusione.
Hell Is a Place on Earth: le canzoni di Black Mirror
I contesti utilizzati da Brooker nei migliori episodi di Black Mirror sono mutevoli: si va dalla realtà virtuale creata dal software San Junipero, un cimitero di ricordi, ai tanti futuri che potrebbero essere senza, sforzo di immaginazione, realtà attuali parallele alla nostra. Altrettanto vari sono gli spunti di critica sociale: la gestione e l'abuso del potere di USS Callister, l'ossessione per il controllo di Arkangel , i rischi connessi all'assenza di privacy cui la rete ci espone, in Zitto e balla. Passando per la satira dei programmi di intrattenimento e la nostra compulsiva necessità di spettacolarizzazione, in 15 milioni di celebrità, il rischio di incapacità emotiva a cui la società dello spettacolo e l'occhio indiscreto del "grande fratello" ci espone, in Orso bianco, l'impossibilità di trovare conforto e di creare emozioni al fianco di un'intelligenza artificiale, in Torna da me. Fino all'ossessione sociale di popolarità affrontata in Caduta libera, una farsa sardonica in cui a determinare diritti e possibilità nella vita di una giovane donna (Bryce Dallas Howard) sono le stelline, un sistema che fa chiaramente il verso ai like di Facebook, ai cuori di Twitter e Instagram, ma anche al peculiare sistema di rating sociale introdotto in Cina (e predetto da Asimov più di 50 anni fa).
Altered Carbon
Qualcuno supera tutto questo e fa un salto direttamente in un futuro ancora parecchio lontano: Altered Carbon, in onda su Netflix (a breve la seconda stagione), tratta dal romanzo omonimo di Richard Morgan, ci apre direttamente le porte di una San Francisco del 2384 in cui la vita in una realtà virtuale, le intelligenze artificiali fanno ormai parte dell'esperienza quotidiana. Gli esseri umani in Altered Carbon esistono a hanno sviluppato una nuova tecnologia che gli ha permesso di realizzare il sogno dell'immortalità. Bisogna solo trasferire la propria anima da un involucro all'altro, superando così l'eterno problema della deperibilità e della morte del corpo fisico. La coscienza di ogni essere umano viene messa in piccole pile corticali che possono essere spostate da un corpo all'altro. Il processo, però, è molto costoso, e non fa che aumentare il divario sociale tra più e meno fortunati. Siamo sicuri, però, che basti un corpo bello e nuovo di zecca per eliminare angoscia e paure dalla ormai eterna vita? Non basta e il potentissimo Laurens Bancroft ne è la dimostrazione: vuole scoprire come è morto e se qualcuno l'ha ucciso. È per questo motivo che il nostro protagonista, Takeshi Kovacs, si ritroverà di nuovo catapultato nel mondo a 250 anni dalla sua morte. Come ex membro delle unità speciali, viene scongelato, per volere di Bancroft, per scoprire cosa è realmente successo nel momento della morte del suo nuovo padrone.
Non lasciatevi ingannare dalla crime story: Altered Carbon non è solo quello e nei meandri di un'indagine poliziesca nasconde pressanti domande di ordine morale. Che senso hanno l'esperienza e i ricordi umani quando, virtualmente, è possibile collezionarne un numero infinito? In che modo è possibile percepire ancora se stessi e gli altri se ad intervalli più o meno regolari si viene trasferiti in un corpo che non è il proprio? C'è ancora spazio per le emozioni o per la responsabilità delle azioni all'interno di una vita che non è più un corso ma una deriva nell'infinito? Per ora Altered Carbon non fornisce risposte ma una considerazione fondamentale: sotto forma di androide, in uno scenario virtuale o distillato in pratiche pile corticali, fin quando l'essere umano resterà umano, conserverà sempre la capacità e l'ansia di scoprire di più su se stesso.
Osmosis
Non solo non c'è futuro senza uomini, ma nulla è destinato a sconvolgersi perché sono gli esseri umani a non cambiare mai. Questo è il punto di arrivo (almeno per la prima stagione) di Osmosis, la nuova serie sci-fi francese di Netflix. L'estetica, i temi, le ambientazioni... tutto faceva pensare a una nuova distopia all'ombra di Black Mirror. Perfino lo spunto al centro della trama aveva subito fatto correre la mente a Hang the DJ, l'episodio in cui Brooker criticava il bisogno sempre più diffuso di farsi aiutare dalla tecnologia nella ricerca dell'amore. Invece Osmosis procede per la sua strada e sgombera il campo da una revisione morale molto critica verso il progresso tecnologico e la sua ricerca sfrenata: ciò che interessa sono piuttosto le storie, intime e personali, di chi ha bisogno di ricorrere alla tecnologia per colmare un vuoto dell'anima.
E in fondo è proprio così che Osmosis, la tecnologia, nasce per mano di Esther (Agatha Bonitzer): la vita di suo fratello Paul (Hugo Becker) è appesa a un filo e può salvarlo solo un'emozione. Quella data da un ricordo, che si materializza nella forma di un nanorobot impiantato nel cervello. Il buon risultato dell'esperimento spingerà i due fratelli a sviluppare la tecnologia per garantire ai milioni di cuori solitari là fuori la possibilità di trovare l'amore vero. Unica condizione: permettere ai robot di leggere ogni pensiero ed emozione. In Osmosis non è la tecnologia a creare utopie o distopie. In questo senso la serie francese porta il fattore science fiction al grado zero: nonostante la trama inglobi quasi qualunque archetipo di genere, il motore dell'azione non risiede certo nell'AI Martin o nei nanorobot che consentono l'osmosi del titolo, ma negli esseri umani e nelle loro azioni eticamente giudicabili. La tecnologia è puro strumento, il progresso scientifico ancora quello "specchio nero" in cui proiettare paure e speranze ma Osmosis ferma la sua visione al di qua, immergendo pienamente le mani nel materiale umano di quella che è solo una delle esperienze possibili. Se nella Parigi futuribile anche le polemiche sul bene e sul male del progresso sono le stesse di sempre, ciò che Osmosis sembra dire è che non ci sarà nessuna tecnologia a seppellirci a patto che non lo vogliamo: anche nella distruzione, siamo immancabilmente presenti al nostro umano destino.