Sarà solo nel finale che Opus, esordio di Mark Anthony Green, compirà la sua forma narrativa, rivelando il suo scopo. Un finale, nemmeno a dirlo, terrorizzante (carico di domande). Non ve lo riveliamo di certo, ma ha note talmente concettuali da sembrare quasi profetico (ma non così innovatore). Essenzialmente, il film, che rimpinza l'offerta distributiva di A24, che si è accaparrato il titolo dopo il passaggio al Sundance (il suo habitat naturale), si basa su due elementi: la musica e lo spazio.

C'è un ragionamento, da parte del regista - anche sceneggiatore -, che insegue la struttura seguendo un motivo parallelo, in cui l'architettura scenica si mescola con quella musicale: da una parte le musiche originali firmate da due artisti come Nile Rodger e The-Dream (bastano loro come motivo grande interesse), dall'altra la scenografia di Robert Pyzocha (lo stesso di Joker). In mezzo, un approccio quasi teatrale che riflette sul senso del divismo narciso, dell'idolatria e della vanità, facendo a pezzi (vabbè, a pezzettini) influencer, giornalisti asserviti e costruzioni mediatiche.
Opus: un week-end con John Malkovich
La protagonista di Opus - Venera La Tua Stella è Ariel (Ayo Edebiri), tra le sei fortunate persone ad essere ospitate per un week-end nella magione di Alfred Moretti (John Malkovich), superstar anni Novanta che, dopo trent'anni di silenzio, ha deciso di presentare un nuovo album. Ariel fa la giornalista, è pragmatica, decisa, diffidente e ambiziosa (e non è mica un caso che il regista abbia proprio un passato da giornalista). Con lei anche il suo capo Stan (Murray Bartlett), la conduttrice di talk show Clara (Juliette Lewis), l'influencer Emily (Stephanie Suganami), la fotografa Bianca (Melissa Chambers) e il conduttore radiofonico Bill (Mark Sivesten).

Sì, i personaggi sono tanti e, bisogna dirlo, non tutti hanno lo spazio minimo che meriterebbero, almeno da poterli fissare nella nostra testa, senza dimenticarli nel giro di un paio di scene. Anche perché la magione di Moretti sembra molto più simile ad una setta, di cui fanno parte gli adepti, ossia i Livellisti. C'è qualcosa di inquietante che aleggia - a cominciare da un grande classico, già visto anche nell'ottimo Blink Twice di Zoe Krativz: il sequestro degli smartphone -, tanto che Ariel inizia a diventare sempre più sospettosa. Quando Bill sparisce nel nulla, ed Emily inizia a star male, la situazione degenera.
Tribalismo, idolatria e un film alla ricerca dell'effetto
Innanzitutto, possiamo dire che Opus, di contrasto, fa poco per essere originale (coscientemente?): lo schema è abbastanza sgamato, così come la struttura narrativa in cui un gruppo di persone che si ritrova, inconsapevolmente, nel bel mezzo di un piano progettato per essere portato fino in fondo. L'analisi del tribalismo misto al fattore religioso è quindi palese: la celebrità come idea di credo e di devozione. Il ragionamento di Mark Anthony Green, però, non vuole puntare all'unicità tout court, bensì cerca di infilarsi nel linguaggio contemporaneo, riflettendo sulla soggiogante epoca in cui l'idolatria viene scambiata per Fede - e viceversa - creando degli incontrollabili mostri.

Per questo il personaggio di Ariel che, nemmeno a dirlo, è interpretata dalla miglior nuova voce di Hollywood (sì, Ayo Edebiri è il meglio che può darci il cinema americano in questo momento), risulta fondamentale per scardinare certi concetti, puntando a quell'oggettività e quella verità che, di certo, non appartengono agli influencer, gustosamente ridicolizzati dallo sguardo di Green. Uno sguardo applicato al controverso Moretti (e non è un caso che sia il secondo regista a prenderli di mira, dopo Tim Burton in Beetlejuice Beetlejuice), in quanto è lui il punto di vista della storia, intrecciato con quello di Ariel.
Tuttavia, anche la verità stessa, prosegue Opus, è soggetta ad essere parte integrante di un'ideologia artistica che non accetta contrasti né critiche, facendone uno strumento asservito per i propri scopi, plagiando e infettando coloro che credono nei falsi profeti (molto simili a quei leader che professano e sentenziano). Perciò, la star Moretti, copia-carbone di sé stesso, e strumento da palcoscenico, altro non è che un mistero svelato (e scontato), in un'opera che - come Moretti stesso - vive inseguendo spasmodicamente l'effetto.
Conclusioni
Mark Anthony Green rivede gli spunti legati all'idolatria, alla religione e alla vanità, per un thriller psicologico che non punta all'originalità, ma risulta più interessato a giocare con l'effetto costante, quasi fosse l'emulazione diretta dal protagonista, interpretato da John Malkovich. Dall'altra parte, la colonna sonora risulta fondamentale, così come la presenza di Ayo Edebiri, chiaramente la miglior attrice americana del momento.
Perché ci piace
- Ayo Edebiri è sempre più brava.
- La colonna sonora.
- Uno spunto gustoso.
- Il finale.
Cosa non va
- Il film cerca costantemente l'effetto, pur non essendo mai originale.
- La parte centrale gira su sé stessa.