Cosa si può dire, ormai? Cosa si può dire, ora? Cosa si può dire dell'ennesimo film di Guy Ritchie? Il regista britannico più iperattivo del cinema contemporaneo, che dal 2017 ad oggi ha fatto ben sei film (Covenant, l'ultimo, è già pronto ed esce tra quattro giorni in America) cambiando per di più continuamente genere (una cosa che nemmeno Kubrick nella visione di Stanis LaRochelle), dal fantasy epico di King Arthur, passando per il buco nero dei live action Disney, fino al titolo di cui stiamo per parlare, che è una spy story girata e scritta con il pilota automatico. Anzi, peggio, autocitando se stesso in continuazione. Cosa si può dire, ormai? Che ha infranto qualche record? "Quale", dite voi? Forse quello di uscire in Italia per la terza volta consecutiva direttamente su piattaforma.
Se vi è piaciuta questa domanda retorica, provocatoria e saccente, sappiate che è quella che farebbe un personaggio di questo film. Gancio che ci permette di iniziare la recensione di Operation Fortune (titolo originale Operation Fortune: Ruse de Guerre) dicendo che lo trovate su Sky Cinema dal 17 aprile 2023 e che, se l'ironia è di questo livello, forse è anche giusto così.
Sicuramente è più giusto rispetto a quanto lo fu per The Gentlemen e, soprattutto, per Wrath of a Man. Due titoli assolutamente più sensati di questo, che con il secondo citato, oltre a Eddie Marsan, ha in comune (solo, purtroppo) Jason Stataham, tornato all'ovile probabilmente dopo essersi arreso al fatto che Hobbs & Shaw non diventerà un franchise di successo, e il buon Josh Hartnett, ormai impelagato in una fase di carriera in cui si è disperatamente alla ricerca di una collocazione. Per fortuna si sono uniti al progetto Aubrey Plaza, attrice in rampa di lancio (e Ritchie lo sa e infatti la sfrutta a pieno), Hugh Grant, che ha scoperto solo ora che i villan li sa fare molto bene (cosa inspiegabile visto che li ha sempre fatti) e il redivivo Cary Elwes, uno che quando lo butti nella mischia non sbaglia mai.
Tanti nomi per un team di primo pelo, anche se andando avanti con il minutaggio l'unica cosa che viene da pensare è che i soli a voler fare il film fossero Stataham e Ritchie, interessati evidentemente a dar vita a questo Orson Fortune (il nome del protagonista di turno) di cui però alla fine della pellicola ci si ricorda solo il nome.
Allora la domanda diventa: "Perché il duo ha pensato potesse essere una buona idea imbarcarsi in questa impresa"?
Un mercenario con le sindromi
Orson Fortune (Stataham) è uno di quei mercenari talmente bravi che il governo è disposto a tollerarli nonostante rappresentino una seccatura a livello economico. Hanno diecimila vizi, vogliono solamente specifici collaboratori, hanno sempre bisogno di essere coccolati (al nostro piace molto il vino per esempio) e soffrono di "nuvolofobia", quindi spesso hanno bisogno di recarsi in posti esotici dove passare costosissimi soggiorni terapeutici.
Però sono bravi, quindi se si deve recuperare in gran segreto un dispositivo super tecnologico noto con un nome peculiare come "la maniglia" per impedirne l'ingresso nel mercato nero ci si rivolge a loro. Ci si rivolge ad Orson. Magari passando per Nathan Jasmine (Elwes), a quanto pare l'unico uomo sulla faccia della Terra ad imbrigliare Fortune e farlo lavorare con un team nuovo, composto dall'americanissima, sexyssima e sboccatissima Sarah Fidel (Plaza) e il marine tuttofare J.J. Davies (Bugzy Malone).
Una squadra straordinaria per una missione che si complica solo quando in scena entrano Mike (Peter Ferdinando), lo spietato capo di un altro team di mercenari super addestrati, armati e pagati (in cui c'è anche un John molto agognato) e, soprattutto, il re del traffico illegale di armi, Greg Simmons (Grant).
Come tutti noi sappiamo, però, ogni uomo ha il suo prezzo e il prezzo di ogni uomo è sventolargli in faccia l'unica cosa che non può comprare, come avere la fama del suo attore hollywoodiano preferito, che guarda caso è un ricattabilissimo bamboccio di nome Danny Francesco (Hartnett), o la sua ipotetica ragazza.
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Un divertissement guyritchiano neanche troppo divertito
La motivazione riguardo l'ideazione del film buona per la stampa, per i teorici e per la propria coscienza artistica (forse), Guy Ritchie la imbastisce probabilmente dicendo di voler continuare ad esplorare le potenzialità della propria poetica, tornando ad una dimensione molto più da commedia dopo un action più serioso. Magari proponendo una pellicola che sia riconoscibile, ma sempre misurata in termini di manierismi e voli pindarici visivi, e puntando più ad una trama che possa parlare di capitalismo e privatizzazione in modo da far risaltare ancora di più i personaggi, liberi di esprimersi con un'ironia british molto marcata. A questo si aggiunge, ovviamente, quella spruzzatina action specialità della casa.
Un impianto pensato magari per giocare con un'idea metacinematografica in cui si vuole prendere in giro la figura della spia moderna, più vicina ad un attore hollywoodiano rispetto a quella di un agente segreto. Attento a non perdere mai l'opportunità per fare una battuta o a quale outfit indossare e non a fare il proprio lavoro, forte di un velo di invulnerabilità e onniscienza infrangibile per tutti.
Ed effettivamente l'idea del fascino che esercita la star, l'attore, il divo, ma anche la potenza della messa in scena, sono, insieme alla prova di Aubrey Plaza (che nonostante sia un personaggio femminile "nuovo" nel cinema ritchiano, non è minimamente paragonabile a Rachel McAdams o ad Alicia Vikander), l'unica cosa criticamente interessante di Operation Fortune. Questi elementi e l'idea di inserire un A.I. in una spy story, visti i tempi che stiamo vivendo. Il resto è scartabile. Anche la riscrittura dei mercenari ucraini in seguito allo scoppio della guerra è dimenticabile.
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Dunque, al netto di tutto il discorso che abbiamo fatto, quale sarà la motivazione reale che ha spinto il duo a pensare fosse una buona trovata fare questo film? L'idea dei record da infrangere era una stupidaggine (una delle tante di questa recensione).
Proviamo ad essere seri allora. Al di fuor dei franchise action pluridecennali, nel cinema commerciale americano ci si muove per parodie e, a dire la verità, anche i suddetti franchise stanno strizzando l'occhio alla tendenza "divertissement". Un fenomeno che testimonia come prendersi poco sul serio nei momenti di crisi creativa è sempre la cosa migliore. Togliamo dal tavolo il lavoro che si è fatto con 007, quello è serio e interessante.
La differenza tra i titoli di grandi studios o delle piattaforme streaming è il film di Ritchie e Stataham è che quest'ultimo si può fare con meno della metà del budget. E tutto si può dire ad Operation Fortune tranne che sia peggio di altre pellicole sue parenti prossime. Forse è addirittura meglio. In quest'ottica il progetto diventa molto più comprensibile, anche se rimane il problema che per prenderti poco sul serio il primo a divertirti devi essere tu. E in questo caso non sembra la cosa sia avvenuta granché.
Conclusioni
Nella recensione di Operation Fortune vi abbiamo parlato dell'ennesimo film di Guy Ritchie, tornato questa volta ad una spy story impregnata di commedia british con protagonista il suo Jason Stataham, affiancato da Aubrey Plaza, Josh Hartnett, Cary Elwes e Hugh Grant. Una pellicola che vuole allinearsi a quella idea di cinema action commerciale che per mancanza di idee diventa parodia del genere, forse per creare una saga (come sembra indicare lo stesso titolo del film). Per prendersi poco sul serio, però, bisogna essere bravi a divertirsi e a far divertire il pubblico.
Perché ci piace
- La prova del cast, specialmente Aubrey Plaza e Hugh Grant.
- I momenti action in cui risplende l'accoppiata Stataham-Ritchie.
- L'idea metacinematografica della potenza della messa in scena.
Cosa non va
- Una pellicola già vista.
- Un protagonista dimenticabilissimo.
- La prevedibilità di tutto ciò che accade, più o meno.