È il primo film in Italia a denunciare apertamente lo scandalo delle molestie sessuali sul posto di lavoro, una storia semplice, immersa nella quotidiana laboriosità di un'inserviente, Nina (Cristiana Capotondi) , impiegata in una residenza per anziani facoltosi nella campagna brianzola. Di questo che parla Nome di donna, il nuovo film di Marco Tullio Giordana e stupisce che si sia dovuti arrivare al 2018, l'anno del #TimesUp e del caso Weinstein, per poterne discutere anche sul grande schermo.
Il merito è di un soggetto risalente ad almeno tre anni fa, scritto da Cristiana Mainardi, giornalista che ha incontrato donne e associazioni, ascoltato storie e fatto ricerche sul campo per poter dare finalmente voce a quello che lei stessa ha definito "un esercito immenso e tuttavia anonimo e silenzioso" che un giorno dopo l'altro si è impegnato e si impegna ostinatamente a combattere "una battaglia che non avrebbe dovuto essere combattuta mai e che non si dovrebbe combattere ancora adesso: solo perché si è donne. In nome del diritto al lavoro e in difesa della propria dignità".
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Una, cento, mille Nina
Una storia semplice che ne vale milioni, un racconto di psicologie e denuncia. Da dove parte Nome di donna?
Marco Tullio Giordana: Il progetto risale a un paio di anni fa quando Cristiana Mainardi e Lionello Cerri mi proposero la sceneggiatura e il problema delle molestie non era ancora sugli scudi come oggi. Era molto bella, aveva il pregio di non affrontare questo tema dal punto di vista della denuncia militante, il film veemente, la buona causa...
La storia indaga infatti un personaggio femminile coraggioso e temerario e affronta tutto ciò che succede attorno a lei e alle altre donne, non solo quelle vittime di attenzioni fastidiose; tutti i personaggi femminili del film non sono giudicati, ma raccontati nella loro fragilità e nei danni collaterali per esempio attraverso la figura della figlia e della moglie del molestatore, vittime dei suoi comportamenti.
Ho scelto attori che mi piacevano, tutti molto credibili nel mostrare le sfumature dei rispettivi personaggi.
Qual è l'origine di un film che va oltre la semplice cronache?
Cristiana Mainardi: Avevo in mente un fatto degli anni '90 che portò a inserire le molestie nella legge del 1996 (che considerava lo stupro reato contro la persona e non più contro la morale). Ma sentivo soprattutto che con l'ultima recente crisi economica si stavano affermando nel mondo lavorativo legato alla condizione femminile nuove e antiche fragilità; c'era un'emergenza. Amo molto la quotidianità e per questo ho cercato un segmento di racconto che si rifacesse alle abitudini che si insinuano nel nostro modo di essere e relazionarci agli altri.
Il tema delle molestie si è imposto immediatamente, era un argomento taciuto fino ad allora e all'epoca in cui questa storia era ancora solo un soggetto, fu chiaro ed evidente che poteva suscitare fastidio, indifferenza o addirittura risultare quasi respingente. Mi è stato spesso detto: "Forse se non lo hanno affrontato fino ad ora un motivo ci sarà".
Ho fatto un lavoro di ricerca obiettiva sulle figure, le associazioni e i sindacati che lavorano sul tema, alcune anche da cinquanta anni, e dall'altro ho cercato di incontrare donne, storie e di avere da loro la sensazione, l'emozione e il dolore profondo provato alla fine di storie a volte molto lunghe. Partendo da questi elementi ho ricostruito una storia di fantasia con l'intenzione di dare una chance a un personaggio che scegliendo di ribellarsi arrivasse a un esito positivo.
È un storia sulle donne e sul lavoro che non c'è. Cristiana, ci racconti la tua Nina?
Cristiana Capotondi: È interessante che questo storia si svolga nel mondo del lavoro e che si colleghi direttamente al bisogno urgente di fare pulizia. La protagonista vuole solo lavorare e non ha intenzioni di accettare compromessi per farlo, vuole mantenere la propria famiglia e la sua indipendenza e credo che sia un'esigenza legittima oggi per una donna, una battaglia che tutte affrontano quotidianamente in un processo culturale di cambiamento. È una storia folle, coraggiosa, determinata e vincente.
Michela, anche tu interpreti un ruolo molto forte, quello dell'avvocato Tina.
Michela Cescon: L'incontro tra Tina e Nina è molto bello, perché la protagonista trova nello sguardo e negli occhi di un'altra donna l'aiuto per poi vincere. Tina è un'avvocatessa bella e simpatica, molto diretta, chiara, abituata a vincere e ostinata a creare un legame emotivo con Nina.
Nella solitudine di una donna che ha subito violenze un incontro con un avvocatessa di questo tipo e con quello sguardo è potente.
Cosa ci potete raccontare della scena finale? Era già in sceneggiatura?
M.T. G.: Ce l'ha messa Dino Riso! Rappresenta il bisogno di ricominciare sempre da capo, e ci dice che la strada da percorrere è ancora lunga.
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Una questione di potere
Cristiana, hai mai avuto questa visione del tuo mondo?
C. C: No, non mi sono mai scontrata con una realtà del genere, ma l'ho sentita spesso raccontare da altre persone anche in maniera molto coinvolgente, non parlo per mia esperienza. È necessario costruire un percorso culturale a partire dalle mamme che educano bambini e bambine.
Ciò che mi avvicina di più a Nina è la voglia di bonificare i luoghi di lavoro che dovrebbero essere il luogo della nostra realizzazione, scevri da frustrazioni, aggressioni e abusi psicologici molto dolorosi.
A finire sul banco degli imputati è anche la figura di un prete: possiamo considerarlo un attacco d'accusa alla Chiesa spesso coinvolta dallo scandalo delle molestie?
M. T. G.: Nel film ci sono due figure religiose: una è il capo del personale della grossa azienda sanitaria privata in cui lavora Nina, la Chiesa dei grandi investimenti, e l'altra è quella di un sacerdote con un'idea antica della sua missione e che timidamente, dopo aver nascosto la testa sotto la sabbia, decide di fare il suo dovere. Non è un discorso anticlericale, anche perché in questo momento storico con il nuovo Papa stiamo assistendo a un ribaltamento della tradizionale posizione della Chiesa accanto ai poteri forti.
Le donne si sono spesso divise sul tema, non tutte la pensano allo stesso modo...
C. M.: Sta accadendo qualcosa di nuovissimo che rompe un silenzio secolare ed è sacrosanto che non abbia una voce univoca; è il cuore di un dibattito che deve riguardare anche gli uomini. È un punto di partenza, non so dove ci porterà, ma è fondamentale salvare tutte le diversità affinché ci sia un dialogo aperto.
C. C.: Credo si debbano ancora segnare i perimetri dei termini tra abuso, violenza, ricatto. Stiamo assistendo a qualcosa che sta iniziando ora e che si sta compiendo, quindi non posso offrire una riflessione esaustiva. Da donna e ancor prima da persona sono felice che si sia fatta luce sugli effetti collaterali del potere ed è necessario esprimere dei leader - dai politici ai direttori d'azienda - che siano autentici e che non portino le loro psicosi sul posto di lavoro perché il potere determina diritti, ma anche doveri.
M.C.: Le donne hanno voglia di ritrovarsi insieme, l'abuso non è una regola del gioco: può succedere, ma non si deve pensare che sia la regola. Ognuna dovrebbe sentire l'orgoglio di non essere il bocconcino di nessuno.
Ne I cento passi affrontava la questione dell'omertà mafiosa, in questo film racconta quella delle donne che hanno paura di denunciare. Ci sono le condizioni per cui anche questo tipo di omertà cada come sta succedendo per quella mafiosa?
M.T.G.: Credo che il termine omertà sia una parola squisitamente italiana, intraducibile nelle altre lingue. Certo che prima o poi cadrà, grazie alle testimonianze degli audaci e delle audaci. Anche gli uomini però in questa lotta hanno la loro funzione, non possono chiamarsene fuori; è un ribaltamento culturale che deve toccare tutti, bisogna cominciare a dare delle spallate, i primi si faranno sicuramente male, ma ho fiducia che le cose possono cambiare altrimenti non farei cinema.
La molestia, l'abuso, la manina, non fanno parte della deliziosa guerra dei sessi. È una questione di potere che riguarda tutti: prete e bambino, uomo con uomo, uomo con donna o donna con donna, è il problema di qualcuno che è in grado di esercitare una soggezione e di un'altra persona a cui costa molto caro dire di no. Ci saranno anche le eccezioni con le furbe o i furbi di turno, ma in buona sostanza le donne vittima di violenza sono così tante da pensare che sia un'abitudine radicata.