We have all the love in the world. If that's all we have. You will find we need nothing more.
Le note jazz e la voce calda di Louis Armstrong ci cullano dentro una splendida illusione. Speranze su misura per James Bond, che di tempo ne ha sempre avuto tantissimo. "Abbiamo tutto il tempo del mondo" non è solo il titolo di una splendida canzone. Non è solo la battuta con cui Bond rassicura la sua Madeleine verso la fine di No Time To Die, ma l'inno beffardo di un film che ha fatto del Tempo il vero nemico di 007. Un Tempo severo, esigente, che presenta il conto e non concede sconti. Una dichiarazione d'intenti che il 25esimo film di James Bond svela a gran voce sin dal titolo, con quel No Time To Die che alla fine del film assume una marea di significati metaforici. Se è vero che il Safin di Rami Malek ha deluso come villain, incapace di imporsi come una nemesi all'altezza del gran finale, va detto che il signor Tempo si è preso le luci della ribalta.
Un nemico (forse) impossibile da sconfiggere, perché invisibile, astratto e inesorabile. Un nemico che ha sempre sfiorato Bond e adesso ha voglia di prendersi la sua rivincita. Scopriamo perché in No Time To Die è così importante. E perché, in fondo, non si vive solo due volte. Forse una di meno. O forse molte di più.
Fuori tempo
James Bond è sempre sopravvissuto al suo stesso mito. Nel farlo ha sempre beffato il passare del tempo rimanendo uguale a se stesso, inscalfibile e immutabile. Fedele alla sua immagine di sex symbol vincente e irreprensibile, l'agente 007 ha avuto licenza di uccidere ogni minaccia alla sua icona splendente. Questa regola d'oro ha iniziato ad arrugginirsi con Skyfall, film in cui Sam Mendes inizia a mettere in discussione il ruolo di Bond nella società contemporanea. Una società in cui un eroe come lui è ormai superato, fuori posto, fuori tempo. In un mondo in cui il male si combatte con una tastiera (e non più con una pistola), l'eroe d'azione risulta di colpo un pezzo d'antiquariato, una creatura giurassica che puzza di vecchio. Da Skyfall a No Time to Die nasce così una mini-trilogia in cui il Tempo è il grande antagonista di Bond. Un tempo che lo ha reso meno brillante sul piano fisico, meno centrale dal punto di vista lavorativo e anche meno infallibile con gli avversari e con l'altro sesso. Eccolo lì, quindi, il grande spauracchio del nostro 007: il cambiamento. Per un uomo che non ha mai osato cambiare nel corso di mezzo secolo, ogni modifica della tradizione è una certezza che si sgretola.
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Il tempo che ristagna
Il tempo che passa è un nemico, ma anche il tempo che non ha alcuna intenzione di passare non scherza affatto. Stiamo parlando di quei ricordi che ristagnano nel cuore e nella mente di Bond galleggiando come traumi che non affogano mai. Se in Skyfall e in Spectre siamo entrati nelle sue ferite d'infanzia, riscoprendo l'orfano nascosto dietro l'agente anaffettivo e diffidente, in No Time To Die ritroviamo Bond alle prese con un vecchio conto in sospeso. Nel suo cuore c'è ancora spazio per Vesper, la prima donna che il Bond di Craig abbia mai amato. Una donna che ha fatto breccia sotto la sua spessa corazza di diffidenza e che ha finito per tradire la sua fiducia. Per Bond Vesper è un nodo ancora in gola. Un nodo fatto di amore e di dolore, gioie e lacrime che si tengono ancora stretti. Per questo Bond il passato è un fardello pesantissimo da gestire, un macigno da lasciare andare per tornare a vivere davvero. Un atto liberatorio che per un personaggio così tormentato non può essere certo solo un bigliettino che brucia, perché la tomba di Vesper deve letteralmente esplodere per scuotere Bond e gettarlo verso una nuova vita lontana da quel ricordo doloroso.
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Il tempo che non ci sarà
Non è tempo per morire. Per Bond non lo è mai stato. Per questo il nostro amato 007 affronta la vita con grande spavalderia, con la sicurezza di chi sa che alla fine andrà tutto bene. Non è un caso che in No Time To Die Bond ripeta più volte frasi consolatorie come "abbiamo tutto il tempo del mondo" o risolutorie come "ci metto solo un secondo". Per lui beffare il tempo è sempre stata una dimostrazione di forza, ma questa volta le cose andranno diversamente, perché a beffarlo sarà il tempo stesso (d'altronde No time to die è un titolo molto beffardo). La morte di James Bond non fa altro che ribadire la sua eterna condanna. Quella di un uomo solo, lontano dagli affetti, personaggio senza mai il tempo per diventare una persona. No Time To Die semina il futuro di Bond di grandi speranze e bellissime possibilità, ma alla fine rimane solo l'amaro in bocca di tutto quel tempo che non verrà. Non verrà il Bond senza Vesper nel cuore e finalmente libero di amare Madeleine. Non verrà il Bond padre, finalmente alle prese con un amore puro e incondizionato. No Time To Die conferma la maledizione che scorre nel sangue come il virus di Safin. Una maledizione che parla di orfani, traumi, rimorsi e occasioni mancate.
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Il mito nel tempo
Bond è morto. Bond è stato battuto dal tempo. È davvero andata così? L'agente invincibile è stato davvero trafitto da un paio di lancette? No, non può essere così. Non può essere questo il destino di un'icona cinematografica come James Bond. E allora eccolo trasformarsi nell'unica cosa in grado di sconfiggere il tempo. Eccolo diventare mito, ovvero l'unica cosa immortale. Per sopravvivere il mito ha bisogno di cambiare, adattarsi a nuovi occhi, di essere plasmato da nuove visioni. Di essere persino tradito. Come una fiaba tramandata di generazione in generazione. Proprio come fa Madeleine con sua figlia alla fine di No Time To Die in cui Bond diventa una storia da raccontare. Una storia che sfugge alla ruggine e alle etichette, e che grazie al potere del cinema sfrutta il tempo a suo vantaggio per diventare mito. Questa è la grande intuizione di No Time To Die: averci illuso di aver ucciso James Bond, quando in realtà lo ha solo reso ancora più eterno.