Nella splendida cornice dell'Excelsior di via Veneto a Roma, la Medusa, guidata da patron Letta, ha disposto l'incontro dei tre uomini chiave del suo ultimo film in uscita. Will Smith, Gabriele Muccino e Chris Gardner sono infatti rispettivamente protagonista, regista e autore del soggetto (e dell'omonimo libro) della prima fatica d'oltreoceano del regista romano: La ricerca della felicità.
Circondato dalla mitologia dell'europeo che stempera il mito del sogno americano, i tre hanno dovuto far fronte a una raffica di domande sul tema. Perfettamente a suo agio Smith, entusiasta di aver potuto lavorare braccio a braccio con suo figlio, co-protagonista della pellicola, che si esibisce in una spassosa imitazione del regista, in difficoltà tra la non praticità con i termini americani e la frenesia delle riprese. Muccino è al contrario apparso lievemente teso, nervoso, aspettando il verdetto italiano dopo aver totalizzato oltre 130 milioni di dollari nei soli Stati Uniti.
Scopriamo però che il viaggio verso la felicità dell'impassibile e severo Gardner è tutt'altro che finito: "Penso che la felicità sia un lungo viaggio, un percorso di ricerca. Io sono solo in cammino" ci dice, aggiungendo poi in maniera sorprendente "Oggi le persone che in qualche modo vedo felici sono solo quelle che assumono un qualche tipo di farmaco, di droga". Prova a dare un contributo sul tema anche il regista, che afferma di considerare la felicità "come un continuo alzare la barra, cercare di essere migliori. Ma il momento di felicità è breve, ci si abitua e ci si rimette in moto verso un nuovo stadio di felicità".
Insolita la condivisione di intenti e l'affinità di vedute tra uno scrittore e il regista della propria opera: "La storia centra perfettamente il nocciolo della mia vita", risponde seccamente a domanda Gardner, che per qualsiasi ulteriore approfondimento rimanda alla lettura del romanzo, in uscita per Fandango libri.
Tante parole si spendono sul connubio tra un regista italiano e il sistema produttivo americano, sulla contaminazione tra sguardo europeo e puro e semplice sogno americano.
"Il film è tutta un'altra cosa in America" dice Muccino, "il regista ha meno libertà, anche se con un paziente lavoro di compromesso e convincimento riesce a imporre alla fine le proprie idee". Così ci parla dell'ormai celebre questione del finale: "Il finale originale era con padre e figlio seduti sulla panchina dell'autobus, che passa senza che loro lo prendano. Il bambino chiede come mai e il padre risponde che è stanco di correre, che vuole riposarsi un po'. A mio avviso questo era un finale chiuso, che bloccasse la storia. Così l'ho girato, ma sono riuscito a far passare la mia idea della fine, molto più aperta, propositiva". Oltre ai vincoli strettamente produttivi, il regista ammette anche di esser dovuto andare incontro al gusto degli americani: "Ho raccontato una storia americana con gli occhi dell'america, cioè quelli di una società consumista, individualista, materialista".
Anche se Smith non si mostra d'accordo su quella che sembra essere l'interpretazione prevalente: "Più che del sogno americano è il sogno dell'uomo. Al centro della ricerca di successo non c'è il denaro, ma la voglia di eccellere, di primeggiare in qualcosa. Il denaro ne è solo una conseguenza".
Il bullo di Independence day si lascia andare a sorprendenti citazioni cinefile: "Il vero sogno americano è quello riportato da De Sica in Ladri di biciclette, come anche quello di Umberto D. Sono rimasto anche affascinato dalla potenza de L'ultimo bacio, il film di Gabriele: è molto americana l'idea che oggi sia meglio di ieri, e che il domani sia meglio di oggi".
Agli spettatori toccherà la verifica personale dell'effettiva contaminazione tra i grandi temi made in Usa e l'occhio del regista europeo. A noi è sfuggita.