Di regola, quando ci lascia un grande artista, il punto di partenza per rendergli omaggio sono sempre le sue opere più celebri, quelle che si sono impresse nell'immaginario collettivo. E nella carriera di Milos Forman, molto lunga benché non particolarmente prolifica, di opere del genere, le "pietre miliari" conosciute e amate non soltanto dai cinefili, ce ne sono due in particolare che svettano nell'Olimpo dei capolavori dell'ultimo mezzo secolo: Qualcuno volò sul nido del cuculo e Amadeus.
Stavolta, però, facciamo il contrario e cominciamo invece da uno dei titoli meno noti del regista boemo, senz'altro il suo lavoro più sottovalutato: Valmont. Un film intercettato per caso, tanti anni fa, in una seconda serata in TV, capace di catturarmi fin dalle primissime battute e di incantarmi per le due ore successive. Sui pregi di Valmont, liberissima rivisitazione del classico settecentesco Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos, torneremo in seguito, ma intanto posso provare a spiegare cosa mi ha indotto ad innamorarmi di un film come questo: il senso di intima partecipazione, di gioiosa levità, di modernità straordinaria di un dramma in costume completamente diverso da qualunque altro dramma in costume mi sarebbe mai capitato di vedere.
Ecco, forse uno dei segreti della bellezza del cinema di Milos Forman risiede proprio in questo: nella maniera profondamente personale e sincera in cui il regista nato a Cáslav, in Cecoslovacchia, ha cavalcato i generi più vari, dal biopic al musical. Senza mai farsi imbrigliare da regole e convenzioni, ma conferendo sempre, ad ogni film, qualcosa di unico e di speciale: un tratto identificabile, spesso e volentieri, nella sotterranea empatia di un autore verso i propri personaggi, che si trattasse di quelli più anarchici e sregolati o di antieroi ambigui e tormentati. E sottolineando, talvolta con enfasi manifesta, talaltra con una sottigliezza appena percettibile, il desiderio di libertà di questi personaggi, il loro essere - più o meno consapevolmente - ingabbiati da costrizioni contro le quali tentano di ribellarsi, ciascuno a proprio modo.
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Dalla Cecoslovacchia a Hollywood
L'elogio della libertà, del resto (una libertà anche stilistica), trapelava fin dai primi lavori di Milos Forman, quella "trilogia cecoslovacca" realizzata in patria, fra il 1964 e il 1967, prima che i carri armati sovietici sopraggiungessero a spazzar via la Primavera di Praga: il racconto di formazione, buffo ma al contempo amaro, de L'asso di picche, il suo lungometraggio d'esordio; l'educazione sentimentale della giovane operaia Andula, fra speranza e disillusione, ne Gli amori di una bionda, il primo successo internazionale; e la ferocissima satira antiregime della corrosiva farsa corale Al fuoco, pompieri!, che nel 1967 gli sarebbe valsa la seconda nomination all'Oscar per il miglior film straniero, l'ostilità delle autorità cecoslovacche e l'occasione per espatriare da un paese che, alla propria libertà, stava rinunciando sempre di più.
È l'America ad accogliere il 'profugo' Milos, che in terra statunitense debutta con un progetto lontanissimo dai canoni tradizionali del cinema americano, ma in linea con lo spirito più innovativo e fuori dagli schermi della neonata New Hollywood: Taking Off, commedia intergenerazionale che prende a bersaglio la middle class newyorkese nella società post-sessantottina, fra nuove trasgressioni (sessuali e non) e una distanza sempre più ampia fra genitori e figli. Taking Off, che si avvale pure di un cameo della cantautrice Carly Simon e al Festival di Cannes 1971 riceve il Gran Premio della Giuria, inaugura inoltre il sodalizio tra Forman e il geniale sceneggiatore francese Jean-Claude Carrière, già autore, in quello stesso periodo, dei copioni di alcuni tra i migliori film di Luis Buñuel.
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Sul nido del cuculo: l'elogio della follia
È invece un lavoro su commissione, affidatogli dal produttore Michael Douglas, la pellicola che regalerà a Milos Forman una fama immensa e che rimarrà fra i maggiori successi nella storia del cinema: Qualcuno volò sul nido del cuculo, trasposizione per lo schermo del romanzo di Ken Kesey. Forman avrebbe raccontato divertito di come i suoi amici gli avessero sconsigliato di accettare un film del genere, in apparenza lontano dalla sua sensibilità, e di quale fosse stata la propria risposta: "Per me quella non era soltanto letteratura ma vita reale, la vita che avevo vissuto in Cecoslovacchia dalla mia nascita nel 1932 fino al 1968. Il Partito Comunista era la mia infermiera Ratched, che mi diceva cosa potevo e non potevo fare". Forman, insomma, non poteva non parteggiare per Randle McMurphy, il rude e sboccato paziente di un ospedale psichiatrico dell'Oregon, che con la propria "brama di vita" contagerà gli altri pazienti dell'istituto, incrinando l'ordine ferreo mantenuto dalla spietata capo-infermiera Mildred Ratched.
Appassionata invettiva contro le forme più 'istituzionalizzate' di conformismo e di repressione, Qualcuno volò sul nido del cuculo si rivela il film evento del 1975 nell'America post-nixoniana e vale a Milos Forman l'Oscar per la miglior regia, insieme a quelli per il film, la sceneggiatura e la coppia di protagonisti, un indimenticabile Jack Nicholson e Louise Fletcher. Al trionfo di Qualcuno volò sul nido del cuculo fanno seguito due progetti diversissimi. Hair, del 1979, rielabora il famoso musical di Broadway, riproponendo l'apologia del pacifismo e della controcultura hippie come antidoto alle imposizioni sociali. Ragtime, del 1981, costituisce una fra le imprese più ambiziose di Forman, qui alle prese con il romanzo di E.L. Doctorow dedicato ai conflitti sociali e razziali nella New York del primo Novecento: un affresco storico corale e imponente, ma percorso da una vis drammatica che lo allontana da qualunque accademismo.
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Il Settecento al cinema: Amadeus e Valmont
Se Qualcuno volò sul nido del cuculo è una pellicola che, anche in virtù della sua gigantesca popolarità, ha contribuito a segnare un'epoca e un immaginario, Amadeus è probabilmente il capolavoro di Milos Forman: il miracoloso punto d'incontro fra le suggestioni di una messa in scena di estrema potenza e di cupo fascino e la dolorosa riflessione sulla natura irrazionale e inafferrabile dell'arte. Trasposizione dell'opera teatrale di Peter Shaffer a opera dello stesso autore, Amadeus punta l'attenzione, fin dal titolo, sulla figura di Wolfgang Amadeus Mozart (uno scatenato, irresistibile Tom Hulce), modello archetipico del binomio di genio e sregolatezza, salvo poi aderire sempre di più alla prospettiva dell'altro protagonista del film: Antonio Salieri, il compositore prediletto della corte austriaca, piegato dall'ammirazione per la musica sublime del suo giovane collega e divorato dall'insostenibile consapevolezza della propria mediocrità.
E se il Mozart di Tom Hulce, con la sua estrosità anarchica e il suo sgraziato carisma, resta il mistero al cuore di Amadeus, il sospetto è che la nostra empatia sia diretta soprattutto verso il Salieri di un superbo F. Murray Abraham, il "santo patrono dei mediocri": rabbioso, oscuro, assassino, e pertanto un personaggio di struggente umanità. La consacrazione immediata di Amadeus, suggellata da otto premi Oscar tra cui miglior film e miglior regia, spinge Forman a mettersi al lavoro su una pellicola che sognava di realizzare da anni, un adattamento de Le relazioni pericolose. L'occasione propizia sembra essere offerta dall'omonima riduzione teatrale di Christopher Hampton, che in quel periodo fa furore in palcoscenico: "Andai a vederla e rimasi sorpreso di quanto fosse diversa dai miei ricordi del libro", spiega Forman; "Poi scoprii, con mia sorpresa, che la pièce era molto fedele al libro. La mia memoria mi aveva giocato un buffo scherzo, e con una certa arroganza pensai: 'La mia memoria è interessante. La mia memoria è migliore'".
È proprio questo approccio a rendere Valmont un film unico nel suo genere, nonché un'autentica perla da riscoprire: del romanzo di Laclos, Forman e lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière recuperano solo i personaggi e l'impianto narrativo di base, ma poi lo stravolgono per offrire un nuovo punto di vista sull'intreccio di passioni, inganni, seduzioni incrociate e fatali vendette nel microcosmo dell'aristocrazia francese di fine Settecento. E la pellicola, che esce nel 1989, ad appena un anno di distanza da Le relazioni pericolose di Stephen Frears, ne guadagna in quanto a freschezza, ritmo e modernità, anche in virtù di alcune ispirate scelte di casting: il ventottenne Colin Firth, nel ruolo del titolo, è un seduttore vivace e tutt'altro che luciferino, mentre Annette Bening, alla sua prima parte da protagonista, offre della Marchesa de Merteuil un ritratto incredibilmente complesso e affascinante.
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Larry, Andy, Goya: fra uomini e spettri
Ci vorranno sette anni prima del ritorno di Milos Forman dietro la macchina da presa: Larry Flynt - Oltre lo scandalo, affidatogli dal produttore Oliver Stone e vincitore dell'Orso d'Oro al Festival di Berlino 1997, ricostruisce la battaglia giudiziaria del personaggio eponimo, fondatore della rivista pornografica Hustler, interpretato da un ottimo Woody Harrelson. La parabola del pornografo Flynt, che si adopera per rivendicare la propria libertà d'espressione contro il moralismo e il puritanesimo dell'America contemporanea, si inserisce alla perfezione nel percorso cinematografico del regista: "Quando i nazisti e i comunisti vennero per la prima volta in Cecoslovacchia, dichiararono guerra ai pornografi e ai pervertiti. Tutti erano contenti: chi vorrebbe dei pervertiti nelle strade? Ma poi all'improvviso Gesù Cristo era un pervertito, Shakespeare era un pervertito, Hemingway era un pervertito".
Un altro imprevedibile outsider è invece al centro di Man on the Moon, che nel 1999 vede un formidabile Jim Carrey calarsi con impressionante mimetismo nei panni di Andy Kaufman, rivoluzionario intrattenitore che avrebbe scardinato il concetto stesso di comicità mediante un continuo corto circuito fra realtà e finzione. Un altro biopic, ma animato da un pathos fuori dal comune, da un'infallibile intelligenza nella scrittura e nella regia e dall'abilità nel cogliere lo spirito del personaggio evitando cliché e tentazioni agiografiche. Apprezzato dalla critica (con tanto di Orso d'Argento a Berlino) ma con un responso commerciale inferiore alle aspettative, Man on the Moon segnerà l'allontanamento di Forman dalle scene per ben sette anni, per poi tornare a far coppia con Jean-Claude Carrière per l'ultimo, sottovalutato film della sua carriera: L'ultimo inquisitore, coraggioso amalgama fra la ricostruzione storica (la Spagna a cavallo fra Settecento e Ottocento) e il melodramma, fra le ossessioni personali e le contraddizioni della politica (i grotteschi ritratti di corte dipinti da Francisco Goya) e del potere. Quelle contraddizioni che Forman ha saputo esplorare per più di quarant'anni, di volta in volta da differenti angolature, con una lucidità acuta e implacabile.