Messaggeri di pace: gli alieni che non ti aspetti
Lo spunto per un film sulla vita extra terrestre viene a Steven Spielberg dal ricordo di un'esperienza personale vissuta da bambino:
"Una volta, quando ero molto piccolo, mio padre mi svegliò nel cuore della notte, dicendomi: 'Vieni con me, ho una sorpresa per te'. Ero ancora addormentato quando mi fece salire in macchina. Guidò fino ad una radura; una volta arrivati, scese e rivolse lo sguardo al cielo. Si poteva vedere una spettacolare pioggia di meteoriti lassù. Ogni quindici o venti secondi un lampo di luce attraversava il cielo da una parte all'altra. Penso proprio che quella sia stata la mia prima esperienza ultraterrestre".
Ecco, appunto: la vita extra terrestre non è assiomaticamente legata a qualcosa d'inconoscibile e d'inspiegabile. Una pioggia di meteoriti è perfettamente giustificabile dal punto di vista scientifico, eppure è altro da noi e dal nostro mondo, lo è per la distanza e per i sistemi di riferimento. Ogni volta che alziamo il naso verso il cielo, durante la notte del dieci diosto, noi non vediamo qualcosa che appartenga al nostro mondo. Le stelle cadenti sono già qualcosa di extra terrestre.
Spielberg parte proprio da qui. Dalla passione umana per la vita che si perpetua lontana da noi, dalla nostra esistenza materiale, dalla nostra quotidianità. Il regista s'insinua, dopo un breve prologo che serve da teaser - afferra lo spettatore e lo immobilizza - nella quotidianità di due famiglie: quella dell'elettricista Roy Neary (Richard Dreyfuss), uomo rimasto bambino, eterno giocherellone, attorniato da tre figli che lo trattano come un pari loro e da una moglie ben più conscia dei problemi della famiglia, della carenza di soldi e dell'educazione dei pargoli, e quella di Jillian Guiler (Melinda Dillon), moglie senza marito, che si ritrova a dover crescere da sola il suo unico figlioletto Barry. Due famiglie come tante, nelle quali irromperà, con tutta la sua forza devastante, l'utopia e la testarda ricerca della coda d'un sogno, sogno d'una realtà sconvolgente e dolce, rappresentato, appunto, dalle multicolori presenze extra terrestri che hanno cominciato a manifestarsi tra le stelle e sotto ad esse, così curiosamente vicine all'uomo.
In fin dei conti Incontri ravvicinati del terzo tipo è un film sui sogni. Roy, investito in prima persona dalla clamorosa esperienza di contatto con un extra terrestre, cerca di farne partecipe la sua famiglia, ma nessuno sembra credergli. La scena in cui lui, nottetempo, sveglia moglie e figli per portarli nel luogo in cui ha visto "coi suoi occhi" un UFO, è ispirata al ricordo del piccolo Spielberg sopra citato. Da questo momento nessuno dei suoi cari vorrà più credergli. Non è un caso che Roy, nella prima scena in cui compare, all'inizio del film, discuta con la moglie e coi figli perché ha deciso di portarli al cinema a vedere Pinocchio. Pinocchio è l'icona del bugiardo, anche se un bugiardo a fin di bene. Eppure è proprio così che Roy apparirà agli occhi dei suoi cari: come un bugiardo, un contafrottole, un folle. Folle, sì, perché a partire dal suo incontro con l'UFO, Roy non fa che pensarci, non fa che fissare il cielo, non fa che tentare di materializzare un'immagine inconscia che continua a sognare e che sente sia importante, basilare, tratto d'unione tra lui e gli extra terrestri. Roy diventa preda della sua ossessione. Ha visto un sogno. Egli è ancora un bambino - ecco la sindrome di Peter Pan - e non può vivere se non nell'inseguimento del sogno. Non si affanna per dimostrare a sua moglie che non è pazzo. Roy non mira a rifarsi un'immagine. Egli cerca solo di raggiungere la promessa di felicità che quello strano incontro gli ha iniettato nell'animo.
Non dissimile è la situazione di Jillian. La sua vita è solitaria. La sua vita è suo figlio. Jillian è una persona che ha bisogno di sogni, ne va della propria sopravvivenza. E non è un caso che sia suo figlio Barry a guidarla, nottetempo, all'incontro con gli extra terrestri. Barry è soltanto un bambino di tre anni, eppure sembra conoscere a fondo i sentimenti di sua madre. La capisce come nessun altro e la guida più o meno consciamente verso il sogno, la prende per mano verso la speranza. Si può vivere senza un compagno, senza un marito e senza un padre. Questo vuol dire Barry a sua madre. E glielo dirà nel più terribile dei modi, gettandosi tra le braccia degli extra terrestri che lo sono venuti a prendere, abbandonando la madre, conscio che non sarà per sempre, che sarà solo un allontanamento momentaneo, un gesto forte ma significativo, che ha la potenza di smuovere la donna dalla sua triste vita. Sparito il figlio, Jillian si metterà anch'essa alla ricerca del sogno. Lo farà per necessità: il sogno è riavere suo figlio ed amarlo ancor più profondamente di quanto abbia fatto fino a quel momento, il sogno è non dover più sentire la mancanza di un compagno, il sogno è potersi innamorare di nuovo. Ed infatti Jillian s'innamora di nuovo. Si innamora di Roy, compagno di questa folle ricerca dell'utopia, uomo sognatore, alla mano, pieno di vitalità e caratterizzato da una spiccata e dolce puerilità. Jillian s'innamora di un uomo che, nell'animo, potrebbe, essere suo figlio, s'innamora di un bambino.
Il film di Spielberg è però molto altro. Tratta da un punto di vista molto originale, la paura dello "straniero", del "forestiero". Praticamente tutti i film di fantascienza degli anni cinquanta e sessanta ci avevano mostrato un'immagine particolarmente negativa della vita extra terrestre. Gli alieni venivano sulla terra per conquistarci, ammaliarci, lobotomizzarci, usarci, ucciderci. In un bellissimo film americano del 1956, L'invasione degli ultracorpi di Don Siegel, gli alieni, sotto forma di grossi e risibili "baccelloni", plagiano, addormentano e si sostituiscono agli esseri umani. La loro è una missione precisa e senza nessun tipo di esitazione. Gli alieni non provano pena per noi umani, esseri fallibili, vacui e deboli per eccellenza. Ecco, il film di Spielberg è altamente innovativo non solo per l'uso massiccio e perfettamente integrato degli effetti speciali -di cui parlerò in seguito - ma soprattutto per la visione alternativa, spiazzante che ci restituisce degli alieni. Essi vengono in pace. Sono esseri curiosi, dolci, pacifici. Hanno rapito, negli anni, molti esseri umani, ma solo per poterli conoscere, per poter imparare da loro, per poterci parlare, in una sorta di strano gioco a cavallo dell'universo. Infatti, alla fine del film, nel momento più emozionante della storia, i primi a scendere dal portellone dell'astronave madre sono proprio gli uomini e le donne rapite nel corso degli anni, perfettamente in salute, per nulla invecchiati, impacciati dal ritorno alla vita umana e terrestre. Dalla grossa nave spaziale scende per primo l'essere umano: è messaggero di pace e di tolleranza, è un anello che si chiude.
Il tema degli alieni, così largamente usato dal cinema di genere, viene impugnato da Spielberg e rigirato su se stesso. Non abbiamo nulla da temere, insomma. Essi vengono in pace. La conferma l'abbiamo alla fine del film, certo, ma la storia è piena d'indizi che parlano in questo senso. La navicella di luce che compare a Roy si limita ad osservare con curiosità in cosa si è imbattuta. A Roy non viene torto un capello. Investito dalle luci, egli si renderà ben presto conto che non ha avuto paura di ciò che ha visto. Gli alieni che entrano per la prima volta nella casa di Jillian e Barry, sono esseri docili e affamati. Hanno rovistato nel frigorifero e poi sono scappati appena Barry - un bambino - è sceso in cucina attirato dai rumori. Spielberg sa essere ironico nel fornirci indizi sulla bontà degli extra terrestri. In una sequenza a suo modo perfetta, egli ci mostra tre volanti della polizia che inseguono altrettante lucenti navicelle che volano a livello della sede stradale. Gli sbirri inseguono, le navicelle fuggono. Dov'è sono questi tremendi extra terrestri?
La scena del rapimento di Barry da parte degli alieni è giocata invece su di un abile contrappunto visivo. Le nuvole che nascondono le navicelle e che si srotolano veloci nel cielo, sono scure e poco amichevoli. Le luci che esse emettono sono rossastre, color ruggine, rancide e sanguigne. La sequenza è girata in modo tale da spaventarci ed adotta appositamente questo registro: in tal modo essa fa da contrappunto alla sequenza finale di cui ho già parlato e nella quale Barry scende sorridendo ed incolume dalla nave spaziale che se l'era portato via. A ben vedere persino nella scena del rapimento del bambino ci sono indizi a favore della non pericolosità degli extra terrestri. La grossa nave spaziale potrebbe benissimo e senza la minima fatica radere al suo la casa dove Barry e Jillian si nascondono. Non accade nulla di questo. Le presenze aliene cercano d'introdursi in casa quasi educatamente, senza forzare o spaccare porte.
Chiaro indice della non pericolosità aliena è il comportamento di Barry sin dall'inizio del film. Egli non ha paura di ciò che vede, delle luci nel cielo, anzi, sembrano piacergli non poco, tant'è che nella scena che precede il rapimento, il bambino, guardando fuori dalla finestra, dice "Toys, toys!", giocattoli, giocattoli.
In definitiva tutte quelle luci non fanno paura, attirano, ammaliano, ammiccano.
L'abilità di Spielberg, in sede di sceneggiatura e poi nel pieno delle riprese del film, è quella di legare la possibile comunicazione tra esseri umani ed extraterrestri ai due mezzi più universali che esistano: il colore e la musica. Gli extra terrestri non parlano la nostra lingua, non hanno un corpo come il nostro, non si spostano con i nostri mezzi, con ogni probabilità mangiano cibo diverso dal nostro. Però amano la musica, la conoscono. Amano i colori, li conoscono. La scelta di Spielberg è precisa e molto appropriata: i colori ed i suoni li sentiamo e li percepiamo praticamente tutti allo stesso modo. Nella lunga sequenza finale, uomo ed extra terrestri comunicano con i suoni e con i colori, si salutano, si tranquillizzano sulle rispettive intenzioni. Il brano musicale che gli alieni usano fin dall'inizio del film è composto da cinque note. Solo cinque. E' stata un'idea di Spielberg creare uno spezzone musicale che fosse composto da cinque note, in modo da poterlo assimilare al nostro "salve!".
Cinque note: gli extra terrestri ci stanno salutando, solleviamo le nostre mani al cielo.