Freedom the lesson we must learn/ Do you know what I mean?/ Have your eyes really seen?
I versi della dolcissima melodia di Love Song, nell'interpretazione della cantautrice Lesley Duncan, accompagnano il viaggio in auto della giovane Harper Marlowe nella provincia britannica, fino a un'elegante magione immersa nel verde. È la scena iniziale del film Men; quello stesso brano lo riascolteremo un'ora e mezza più tardi nell'epilogo, ma questa volta nella versione incisa sempre nel 1970 da Elton John per il suo album Tumbleweed Connection. Una voce femminile e una voce maschile aprono e chiudono, sulle medesime note, il terzo lungometraggio da regista di Alex Garland: un dualismo che rimanda a uno dei temi-chiave di un film per il quale, tuttavia, il consiglio spassionato è quello di entrare in sala sapendone il meno possibile. Quale approccio migliore, del resto, che farsi prendere per mano e lasciarsi condurre nel profondo del mistero attraverso gli occhi della protagonista?
Quella casa nel bosco
Harper (Jessie Buckley), trentenne in fuga da Londra - e da un matrimonio finito in modo traumatico - per trascorrere due settimane nella placida solitudine di una casa di campagna nei pressi del villaggio di Cotson, costituisce infatti la nostra unica prospettiva sul racconto, nonché sullo scenario che la circonda: un frammento della provincia inglese e un bosco a cui la fotografia di Rob Hardy conferisce un tenue splendore e, al contempo, un vago sentore di minaccia. Nei primi minuti di Men assistiamo dunque all'arrivo di Harper nel soggiorno della sua vacanza e alla gioviale accoglienza da parte di Geoffrey (Rory Kinnear), il mellifluo padrone di casa. Ci rendiamo subito conto che Harper è in cerca di sollievo dalle inquietudini che l'affliggono, e quel sollievo sembra trovarlo proprio nella silenziosa quiete degli alberi e di una vecchia ferrovia abbandonata; se non fosse che l'apparente armonia di Cotson non tarderà a incresparsi, poco alla volta...
Fino a questo punto, e senza svelare ulteriori elementi della trama, Men non parrebbe distinguersi da un ampio ventaglio di storie analoghe. Certo, la capacità di messa in scena di Alex Garland è ammirevole (e già comprovata dai suoi lavori precedenti, Ex Machina e Annientamento), ma la "casa nel bosco" è ormai un tópos inconfondibile, così come le suggestioni da horror rurale o la presenza di una protagonista isolata dal mondo (con l'eccezione delle videochiamate di un cellulare) e ignara di quel che l'attende. Ciò che però distingue Men dal filone del folk horror e dintorni, e che lo rende uno dei titoli più interessanti dell'annata, è la maniera in cui, passo dopo passo, Garland si libera dalle convenzioni del genere di riferimento e rifiuta le strade più 'semplici'. Ad esempio, rinunciando quasi del tutto ai jumpscare - adoperati con il contagocce - per scegliere invece un percorso assai più coraggioso: quello del perturbante.
Men, la recensione: le facce orribili del senso di colpa
Alex Garland e l'uncanny valley
L'uncanny valley, la valle perturbante, definisce l'immersione in una realtà che ci risulta familiare, eppure per certi versi estranea, generando un sottile senso di confusione destinato a sfociare nell'angoscia. Se l'espressione uncanny valley è stata coniata per descrivere le sensazioni al confronto con un robot umanoide (e la mente non può che correre al folgorante debutto da regista di Garland, Ex Machina), di solito nell'horror si limita a fare da preludio alla manifestazione del mostruoso. Men, al contrario, ritarda l'esplodere dell'azione per far leva quanto più possibile sugli effetti del perturbante, salvo poi giungere a una svolta improvvisa che, nel terzo atto, muterà totalmente le coordinate del film. Ed è in tale aspetto che risiede la scommessa più rischiosa di Alex Garland: un tuffo nel surrealismo puro, in cui la dimensione simbolica prende il sopravvento su tutto il resto per dar vita a una delle macro-sequenze più 'estreme' prodotte negli ultimi anni nell'ambito del cinema americano.
Ed eccoci al punto centrale del nostro discorso: la ricezione controversa di Men. Distribuita negli Stati Uniti lo scorso maggio da A24, una compagnia che del cosiddetto horror d'autore ha fatto uno dei suoi fiori all'occhiello (da The Witch a The Monster, da It Comes at Night a X - A Sexy Horror Story, passando per Hereditary e Midsommar di Ari Aster), la pellicola di Garland si è guadagnata un consenso non proprio unanime dalla critica, ma soprattutto si è prevedibilmente alienata una sostanziosa fetta di pubblico. CinemaScore, la società che raccoglie le reazioni al weekend d'esordio, ha attribuito a Men un lapidario D+, e gli esiti commerciali sono stati in linea con i suddetti exit poll: appena sette milioni e mezzo di dollari incassati in patria in cinque settimane, a dispetto delle oltre duemila sale a disposizione. In Italia l'uscita è fissata per il 24 agosto, e l'auspicio è che un buon numero di spettatori accetti la sfida di cimentarsi con un'opera così anomala.
Ex Machina: quando la fantascienza racconta l'essere umano
Le 'vibrazioni' di un grande horror fuori dagli schemi
Men, lo diciamo subito, è un film che non sarà apprezzato da tutti. È un film che, dopo una prima parte formidabile nella sua progressiva costruzione della suspense, si presta a diventare il bersaglio dell'incredulità, dell'insofferenza, del ribrezzo (alcune immagini sono alquanto impressionanti) e, purtroppo, della derisione di chi non rimarrà 'dentro' la vicenda o non riuscirà a empatizzare con lo stato d'animo di Harper: vuoi perché il pubblico odierno è poco abituato al surrealismo, vuoi perché Garland gioca su un piano allegorico sfacciato, ma che non fornisce soluzioni cristalline. Eppure, il cinema contemporaneo ha bisogno anche di questo: di esperienze in grado di stimolarci in quanto diverse dalle formule consolidate, perché rovesciano le nostre aspettative e si dimostrano tutt'altro che rassicuranti. E Men, pur nelle sue imperfezioni e nei suoi eccessi, ci riesce superbamente: a patto di deporre i nostri pregiudizi e di non ricorrere allo scudo dell'ironia.
Un suggerimento significativo, a tal proposito, ce lo ha fornito Jordan Hoffman nella recensione pubblicata per AV Club: "Ci si dovrebbe approcciare a Men come se fosse jazz modale: non si tratta tanto di una melodia orecchiabile, ma piuttosto di toni, colori, atmosfere, e del brivido di un'esplorazione inaspettata all'interno di un quadro prestabilito. Per usare le parole dei giovani: Men dà delle vibrazioni". Ecco, in un panorama cinematografico in cui l'egemonia dei modelli tradizionali pare inscalfibile, i film che si affidano alle 'vibrazioni' sono decisamente preziosi. Sono film fuori dagli schemi, o perlomeno dagli schemi più diffusi, e che rievocano certi esperimenti (titoli come Repulsion, Possession o Mulholland Drive, giusto per restare in tema) oggi sempre più rari. Men vi piacerà? Non è detto. Lo detesterete? Potrebbe darsi. Vale la pena correre il rischio? Assolutamente sì.