Non esiste in natura roccia che non si crepi internamente o esternamente. Allo stesso modo il cuore delle donne, per quanto forte e ostinato, può cedere all'oscurità di un male invisibile e incompreso. Partendo da questo punto di vista, il regista Fabrizio Cattani (Il rabdomante) ha avuto il coraggio di accendere i riflettori su uno dei tabù più radicati della nostra società: l'infanticidio e la condizione delle madri che lo compiono. Così, ispirato dal testo teatrale From Medea scritto da Grazia Verasani, con cui ha collaborato alla sceneggiatura, il regista indaga nei misteri e nell'oscurità di un mondo femminile dove la solitudine e la disperazione conducono all'impensabile. Perché Maternity Blues, distribuito da Fandango in 15 copie dal 27 aprile, si propone di sollevare il velo dell'indifferenza culturale su avvenimenti che non si limitano a riempire la cronaca televisiva, ma che rappresentano una realtà drammatica di cui la società deve farsi carico. A raccontare la quotidianità eccezionale di queste donne senza futuro e con un presente quasi impossibile da sostenere, sono il regista con i protagonisti Andrea Osvart, Chiara Martegiani, Marina Pennafina e Daniele Pecci.
Per la prima volta il cinema si trova ad affrontare una tematica scomoda per la società come quello dell'infanticidio. Quali difficoltà ha incontrato nel trovare il giusto punto di vista e a raccontare una sensibilità profondamente femminile? Fabrizio Cattanei: Mi rendo conto della complessità del tema, ma quando ho letto il libro di Grazia Verasani mi sono entusiasmato come mai prima. Le pagine mi hanno commosso profondamente e questo mi ha spinto a occuparmi di questo tema fino a entrare in contatto con le donne che stanno scontando la loro pena nell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Successivamente, ho iniziato a pormi anche delle domande sulla condizione dei mariti e sulla loro sorte. Da queste riflessioni è nato il personaggio di Luigi, capace di comprendere e continuare ad amare la sua compagna nonostante tutto.
Quale reazione si aspetta dal pubblico? Fabrizio Cattanei: Mi aspetto che il pubblico riesca a individuare un punto di vista diverso. Attraverso il film non abbiamo alcuna intenzione di assolvere o condannare, ma vogliamo raccontare una maternità che, nonostante quanto affermato fino ad oggi, non è completamente naturale e può trasformarsi in un momento di grandissima difficoltà. Molte donne rimangono in silenzio nella propria solitudine, non parlano dei problemi affrontati nel momento di maggior cambiamento nelle proprie vite. E di questo atteggiamento è colpevole anche la società che impone il modello della madre perfetta a tutti i costi. Con questo film spero, soprattutto, di rompere il silenzio intorno a queste donne, trasformando il giudizio degli altri in un sentimento di pietas.In genere si dice che gli autori di un romanzo non dovrebbero lavorare all'adattamento della propria opera al cinema. In questo caso, invece, scrittrice e regista hanno collaborato quasi simbioticamente alla sceneggiatura. Come siete riusciti in questa piccola impresa?
Fabrizio Cattani: Il libro di Grazia è un testo teatrale con una struttura ben precisa costruita tutta in un solo ambiente. Durante la lettura mi sono innamorato soprattutto dei dialoghi, e quando sono venuto a contatto con la realtà dell'istituto di Castiglione ho pensato che quello sarebbe stato il luogo ideale per ambientare la vicenda. Grazie al personaggio di Luigi, invece, abbiamo avuto la possibilità di uscire all'esterno e di dare un respiro diverso al film.
Grazia Verasani: Ho scritto il testo di From Medea nel 2002 e ancora oggi la piece teatrale è molto rappresentata in Francia e Germania, molto meno in Italia. Questo per farvi capire quanto sia stato difficile realizzare un progetto così in un paese dove i film necessari e la cultura in genere fanno sempre troppa fatica a sopravvivere.Tutto nasce da una mia rabbia personale nei confronti del giudizio sommario e dell'opinionismo televisivo dopo il caso Franzoni. Ho voluto raccontare l'aspetto più estremo della maternità, senza edulcorarla all'acqua di rosa. Da parte mia, ho preferito cercare di comprendere invece di giudicare, perché ognuna di queste donne rappresentano un pozzo profondo da scoprire.
Chiara Martegiani: Sono stata subito attratta dalla tematica ma anche molto spaventata. Per me si trattava solo della seconda esperienza al cinema e, soprattutto, non avevo sperimentato la maternità in prima persona. Ho cercato di non giudicare mai Rina, ma ho provato a capirne il passato e accompagnarla nel suo percorso. Un aiuto fondamentale è arrivato soprattutto dal lavoro di lettura fatto tutte insieme.
Marina Pennafina: Questa è stata un'esperienza che ha cambiato la mia vita. Conoscevo Fabrizio per il lavoro fatto con Il rabdomante ed ho pensato immediatamente che fosse la persona giusta per far continuare a far vivere questi personaggi anche sul grande schermo. È un vero poeta dell'anima. Per quanto riguarda Vincenza si tratta di un personaggio particolare, profondamente diverso da me che ha avuto nella sua vita come unico modello quella della famiglia tradizionale. Quando tutto questo le viene tolto dall'abbandono del marito e da una condizione economica evidentemente disperata, le cadono le basi essenziali per essere quel tipo di madre perfetta e angelicata che la società cattolica impone. A lei, come donna, non rimane più nulla e compie quell'atto disperato in completa catalessi.Tramite Fabrizio abbiamo seguito un percorso psicologico, così che tutti gli ostacoli e i blocchi interiori mano a mano sono stati sciolti. Personalmente ho attinto ai dolori antichi che ognuno di noi si porta dentro senza perdere di vista la maternità di mia madre.
Signor Pecci, a lei è affidata la rappresentazione del punto di vista maschile. Non crede che, almeno in questo caso, ci sia stata una diversa gestione del dolore paterno rispetto a quello materno? Daniele Pecci: Onestamente non so rispondere, probabilmente perché non è questo l'interrogativo che mi sono posto durante le riprese. Leggendo la sceneggiatura mi sono accorto immediatamente che il mio personaggio, oltre al dolore della perdita del proprio mondo, è focalizzato su di una contraddizione diversa. E' evidente che in lui risiede un dolore pregresso, ma dentro ha un interrogativo più grande che lo tormenta. Come si può continuare ad amare il mostro, la persona che ti ha tolto la cosa più importante della tua vita? Lui si accorge che è possibile ed è esattamente questo che ho voluto raccontare. All'inizio Luigi se ne vergogna, ma il suo cuore sente che, al di là della drammaticità del tutto, ci sono dei sentimenti invalicabili.
Il film è stato girato nel 2005 ed ha dovuto attendere ben sette anni prima di arrivare sul grande schermo. Quali difficoltà produttive avete incontrato, soprattutto in un paese dove le commedie, al contrario, vengono finanziate piuttosto velocemente? Fabrizio Cattani: Ho dovuto affrontare molti problemi per la tematica quasi improponibile e per la scelta di investire in film dal guadagno garantito. Il problema è che, in questo momento, i produttori pensano quasi esclusivamente ai soldi a discapito del cinema d'autore. Una volta s'investiva in prodotti più leggeri per poi investire i ricavati in capolavori come Ladri di biciclette. Adesso l'attenzione è puntata solo sul botteghino a discapito di una cinematografia buona ma che ha difficoltà a farsi produrre. In Francia, ad esempio, tutto questo non accade perché possono contare su un fondo cinema formato dai diritti televisivi e dalla distribuzione all'estero. Questo film è costato solamente 400 mila euro con l'esigenza di portare a termine un prodotto qualitativamente alto in grado di confrontarsi con la concorrenza. Per questo motivo, ho fatto un casting molto attento anche dei tecnici, scegliendo di lavorare con i migliori professionisti tra i più giovani. Questo, perché credo fortemente nella voglia di emergere in un mondo cinematografico che non ti da molte possibilità se non fai parte di una schiera ben precisa.