Impostare un ragionamento sul cinema di arti marziali, nel 2013 e col già discusso The Grandmaster di Wong Kar-Wai in uscita sui nostri schermi, significa riferirsi a una riserva di materiale cinematografico praticamente inesauribile. Il genere (se così lo si può chiamare, date le sue infinite, e spesso diversissime, varianti e declinazioni) è vecchio praticamente quanto il cinema; nonostante nella cinematografia di Hong Kong - che più di tutte ha contribuito alla sua storia - siano pochissimi i film sopravvissuti antecedenti agli anni '60, quello delle arti marziali, in quel panorama (e in quello - vicino solo geograficamente - della Cina continentale) è un filone "fondativo" della Settima Arte. Se la visione di The Burning of The Red Lotus Monastery (frammento superstite di una gigantesca opera - 27 ore! - prodotta in Cina tra il 1928 e il 1931, e primo film cinese di cui si ha traccia) può dare un'idea di quale fosse, allora, l'approccio di registi e sceneggiatori verso la materia, una ricognizione fondata non può che partire dai primi film (quelli di circa un trentennio dopo) giunti con continuità fino a noi. In più, riferendosi sempre, in particolare, a Hong Kong, parlare di film di arti marziali significa, con buona approssimazione, parlare di cinema: il genere, infatti (così come la commedia) è penetrato talmente a fondo nell'idea di cinema sviluppatasi in quel panorama, da mescolarsi indistintamente con tutti gli altri generi, diventando parte integrante del modo di pensare e fare film.
Una riflessione sulla storia di questa cinematografia, quindi (specie condotta nello spazio ristretto di un articolo giornalistico) non può che essere qualcosa di parziale. Selezionare, poi, dieci titoli che in qualche modo la rappresentino, estraendone il meglio in mezzo secolo (circa) di storia, è un'operazione che comporta un alto tasso di arbitrarietà. Considerata l'inevitabilità di questa caratteristica, scotto da pagare a qualsiasi operazione simile, la strada che abbiamo scelto è quella di privilegiare per quanto possibile, pur senza rinunciare a un ordinamento qualitativo dei film, il criterio della completezza storica: nei titoli selezionati, infatti, si è cercato di rappresentare equamente stili e autori, filoni e periodi storici, fermo restando che, in ognuno di questi grandi contenitori, si trovano opere probabilmente altrettanto meritevoli di quelle qui inserite. Le esclusioni eccellenti (alcune anche dolorose, per chi scrive) sono tante: può sembrare forse un delitto, parlando di anni '90, lasciar fuori un titolo come Swordsman II di Ching Siu-Tung, tra i punti più alti (e stilisticamente più liberi) di tutto il cinema wuxiapian del periodo; così come può sembrare azzardato, e segno di incompletezza, non inserire neanche un titolo che rappresenti quello sdoganamento del genere (non per tutti positivo) iniziato nei primi anni 2000 da un titolo come La tigre e il dragone di Ang Lee e proseguito coi successivi Hero e La foresta dei pugnali volanti di Zhang Yimou. Anche il recente filone del muay thai, con registi come Prachya Pinkaew (autore di titoli come Ong-Bak - Nato per combattere e Chocolate) e star quali Tony Jaa, ha dato un contributo al genere che sarebbe ingiusto disconoscere. Tuttavia, i due criteri che abbiamo, faticosamente, scelto di far convivere (completezza e qualità) non potevano non lasciare qualche "vittima": citarle qui, comunque, ci sembra quantomeno doveroso.
10. Il teppista (1974)Era il 1974, e l'astro nascente di Sonny Chiba (secondo Quentin Tarantino "il più grande attore di film di arti marziali dopo Bruce Lee") si preparava ad esplodere. Accadde con questo The Street Fighter, primo capitolo di una trilogia (Return of the Street Fighter e The Street Fighter's Last Revenge gli altri due capitoli, da noi rispettivamente Il ritorno del teppista e La vendetta del teppista) e vero titolo di punta di tutta l'exploitation nipponica. Chiba vi interpreta Takuma Tsurugi, killer di professione che si scontra con una potente organizzazione criminale, che ha rapito una giovane e ricca ereditiera per mettere le mani sui suoi averi. Nonostante la povertà della trama, la fisicità del protagonista colpisce duro: così come colpiscono durissimo le massicce dosi di violenza (nel film si vedono stupri, evirazioni, occhi cavati e teste spaccate, con l'espediente della radiografia cranica che fu citata, tra gli altri, dall'americano Romeo deve morire) e l'autentico carattere di antieroe di Sonny. Il suo Takuma, infatti, ammazza a sangue freddo un giovane che non aveva potuto pagarlo per un lavoro svolto, ne stupra la sorella e poi la rivende ad un'organizzazione criminale: eroi ed antieroi americani, a confronto, sembrano agnellini. Tarantino, da par suo, omaggiò il film e la serie (prima di fare di Chiba l'Hattori Hanzo di Kill Bill) nella sceneggiatura di Una vita al massimo: in questo, vediamo i due protagonisti seguire una triple feature con i tre film della serie, e Clarence (alter ego del regista) cantare le lodi del protagonista. Come spesso accade, ciò sarebbe bastato al pubblico occidentale per (ri)scoprire Sonny Chiba.
9. Il serpente all'ombra dell'aquila (1978)
La carriera di Jackie Chan, star sui generis del cinema di Hong Kong, e massimo esponente della fusione di arti marziali e commedia, avrebbe raggiunto il suo culmine negli anni '80, con la lunga serie di pellicole co-interpretate con Sammo Hung e Yuen Biao. Tuttavia, all'interno della lunga filmografia di Chan, abbiamo ritenuto di scegliere questo titolo come uno dei suoi più rappresentativi: perché, insieme al contemporaneo Drunken Master (anch'esso diretto da Yuen Woo-ping) diede all'attore notorietà e successo al box-office, oltre a lanciarlo come star indiscussa della kung fu comedy che in quegli anni si andava affermando (il prototipo del genere, Spiritual Boxer di Liu Chia-Liang, era solo di tre anni precedente). La trama del film è poco più di un pretesto per mettere in scena una lunga, incredibile e travolgente sequenza di acrobazie e gag comiche, che diventeranno il marchio di fabbrica di Jackie: Chien Fu, orfano cresciuto in una scuola di arti marziali, e deriso per la sua scarsa abilità, viene "adottato", e reso edotto alla vera arte del kung fu, da un vecchio maestro vagabondo. Quando il mentore, depositario della "mossa del Serpente", viene minacciato da un opponente più forte, il protagonista correrà in suo aiuto.
Dopo l'inutile tentativo del regista Lo Wei di fare di Chan "il nuovo Bruce Lee" (con titoli come New Fist of Fury) la strada di Jackie è finalmente delineata: un volto da Commedia dell'Arte, su un corpo in grado da solo di reggere un film, con movenze a metà tra la slapstick comedy e il cartoon. Incredibile ma vero, Hollywood l'avrebbe scoperto (e utilizzato al meglio) solo un ventennio dopo.
Alla fine degli anni '70, quando il cinema di kung fu iniziava a dare segni di stanca, e le contaminazioni con la commedia sembravano segnare una nuova (e proficua) strada per il genere, il regista Liu Chia-Liang dava vita a quello che fu forse l'ultimo, grande classico del decennio. Questo gongfupian ad ambientazione storica (ispirato alle reali vicende del monaco San Te) lanciò sullo schermo la star Gordon Liu (fratello adottivo del regista) e fu origine di una trilogia e di un numero infinito di imitatori. Al centro della trama, ambientata durante la dinastia Qing, lo studente Yu-te, fiero oppositore delle autorità Manchu, che si vede uccidere il padre e la famiglia. Trovato rifugio in un tempio Shaolin, il giovane intraprende un percorso di addestramento lungo 35 camere, ognuna atta a sviluppare un'abilità del corpo e della mente; per poi fuoriuscire rigenerato e fondare la sua "36a camera", attraverso la quale insegnare le arti marziali al popolo. Il film colpisce per l'assenza di concessioni al gusto comico e sdrammatizzante in voga all'epoca, e per il realismo della messa in scena: il taglio del racconto, pur non particolarmente originale, è serio, e la descrizione delle prove che il protagonista deve superare è accurata e credibile. L'attenzione all'introspezione psicologica, al percorso personale e interiore dell'aspirante monaco, è una rarità nel cinema dell'epoca: a tutto questo si somma l'ottima prova di Gordon Liu, attore (anch'esso) riscoperto in seguito da Tarantino, che gli offrì un doppio ruolo nel suo Kill Bill. L'indifferenza con cui è stata accolta la recente notizia della scomparsa del regista, di fronte alla fattura di questo (e di altri) film, non può non far riflettere.
7. L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente (1972)
Il ciclone Bruce Lee, nel 1972, aveva già fatto irruzione sugli schermi hongkonghesi, e si stava preparando a sbarcare anche negli USA; nel frattempo, al suo terzo film da protagonista, il Piccolo Drago ottenne dalla Golden Harvest totale libertà creativa, scrivendo il copione di suo pugno, dirigendolo e coreografandone i combattimenti. Il risultato è puro Bruce Lee, per un film riassuntivo delle peculiarità del personaggio: Chen, giovane con la passione per le arti marziali, arriva a Roma per lavorare nel ristorante di uno zio di famiglia, e qui si oppone alle angherie di una banda di malavitosi, che vorrebbe fare del locale un centro per le sue attività criminali. Naturalmente, i malviventi saranno sgominati uno a uno, con epilogo, celeberrimo, nel Colosseo: qui, Lee affronterà un ancor giovane Chuck Norris, in una delle sequenze più note di tutto il cinema di arti marziali. La sconfitta dell'atleta americano, che segue quelle di un altrettanto forte campione europeo e di uno giapponese, si incaricherà di confermare (ulteriormente) la superiorità delle arti marziali cinesi, motivo ricorrente in tutta la filmografia di Lee.
Chang Cheh, insieme a King Hu, fu il regista che più di ogni altro rinnovò il genere wuxia negli anni '60: questo titolo, avvio di una fortunatissima trilogia (e origine di un fondamentale remake, il capolavoro The Blade) è certamente tra i suoi più rappresentativi. Protagonista ne è Fang Gang, giovane spadaccino orfano di padre, reso invalido dalla crudeltà e dall'invidia di una sua compagna: privato di un braccio, il giovane spingerà alle estreme possibilità le sue restanti capacità fisiche, divenendo una macchina da combattimento invincibile. Al termine del suo percorso di apprendimento, potrà così vendicare suo padre, e nel contempo salvare l'onore della stessa scuola, e delle stesse persone, che lo avevano menomato e ripudiato. Oltre a dare origine a una delle più fortunate figure del cinema di Hong Kong, declinata nelle sue diverse varianti, The One-Armed Swordsman mostrava chiaramente tutti gli stilemi della poetica di Chang: l'onore marziale, la solitudine dell'eroe errante, la messa in scena ricca di pathos e violenza. La modernissima regia, con la macchina da presa sempre in movimento, a catturare ogni dettaglio degli scontri, si unisce alle coreografie di Liu Chia-Liang e all'ottima prova di Yu Wang, ex nuotatore, in un ruolo che gli varrà prestigio e successo.
5. The Blade (1995)
Nell'ambito di una generale riscoperta, e rielaborazione attraverso versioni rinnovate, dei classici degli anni '60 e '70 (lo stesso Storia di fantasmi cinesi fu remake del film della Shaw del 1960, The Enchantig Shadow) Tsui Hark diresse nel 1995 uno dei suoi capolavori. Il personaggio dello "spadaccino monco", oltre ad esser stato protagonista della trilogia aperta dal memorabile The One-Armed Swordsman di Chang Cheh, era già diventato uno dei topoi per eccellenza del cinema hongkonghese: Tsui lo avrebbe riutilizzato, e tirato a nuovo, in questo reboot che sarebbe diventato punto di arrivo, nonché tra le vette assolute, di tutto il wuxiapian degli anni '90. Il guerriero con un braccio solo (qui col volto di Vincent Zhao) deve di nuovo vendicare suo padre, ma stavolta il suo nemico è uno, potente e ha la capacità di volare: l'universo che li circonda è più cupo e violento, barbaro quanto affascinante. Tsui ubriaca lo spettatore con movimenti di macchina velocissimi, un montaggio rapido e frastornante, una regia vorticosa che tocca il cielo e la terra, segue le evoluzioni aeree dei personaggi per poi impregnarsi della fisicità più sanguigna. Qualsiasi film successivo sui "cavalieri erranti" non avrebbe potuto sottrarsi al confronto: confronto, regolarmente e inevitabilmente, perso.
Nel 1991, la figura di Wong Fei-Hung (medico e artista marziale vissuto a cavallo tra '800 e '900, nonché emblema della cultura popolare cinese) era stata già celebrata dal cinema in decine di pellicole: tra queste, la lunghissima serie prodotta a partire dal 1949, con protagonista Kwan Tak-hing; nonché un pugno di opere parodistiche, tra cui si annovera il Drunken Master interpretato da Jackie Chan. Tsui Hark, con questo prototipo di una nuova serie (cinque sarebbero stati i sequel) restituiva solennità e forza drammatica al personaggio (che tuttavia, nei sequel, non sarebbe stato immune da nuove derive umoristiche); rilanciando, al contempo, il genere del gongfupian in costume, che avrebbe conosciuto un nuovo periodo fortunato per tutta la prima metà degli anni '90. Nella trama, siamo a fine '800 e Wong è in lotta contro emissari governativi corrotti, collusi con le potenze straniere che occupano il territorio cinese, e che coprono un grosso traffico di schiavi verso l'America. L'enfasi nazionalistica del soggetto si unisce all'ottima regia di Tsui e alle spettacolari coreografie acrobatiche; ma è la presenza di Jet Li, al suo primo vero successo, a fare la differenza. Per tutta la sua carriera, prima dell'approdo negli USA, il ruolo di Wong Fei-Hung e il "tipo" rappresentato dal personaggio (replicato in tanti caratteri simili) gli sarebbe rimasto cucito, inevitabilmente, addosso.
3. Sugata Sanshiro (1943)
Il primo film di Akira Kurosawa, avversato dalla censura e dalle leggi militari dell'epoca (si era nel 1943, in pieno periodo bellico) in quanto considerato non abbastanza patriottico. La storia, ispirata alla vita del campione di Judo Saigo Shiro, racconta la vicenda di un giovane lottatore, dapprima violento e sregolato, che riesce a migliorarsi nel combattimento, e nell'atteggiamento verso la vita, grazie agli insegnamenti di un carismatico maestro. Nella dolorosa storia di crescita e riscatto personale del giovane Sanshiro, si trovano già tutti gli elementi principali del cinema di Kurosawa: la messa in scena rigorosa ed elegante, l'accurata ricostruzione d'epoca, il percorso di formazione personale che passa attraverso tappe difficili, segnate anche dalla morte e dal senso di colpa. Un'opera personale, sia nello spunto principale (lo stesso regista era stato campione di kendo, disciplina diversa dal Judo, ma affine nella durezza degli allenamenti) sia nei temi che porta avanti; purtroppo irreperibile nella sua forma originaria, a causa dei tagli a cui fu sottoposta. Originò un sequel, Sugata Sanshiro parte seconda, diretto nel 1945 dallo stesso Kurosawa, e ben cinque remake, prodotti tra gli anni '50 e '70; ma segnò, soprattutto, l'inizio di una carriera memorabile, che avrebbe consegnato alla storia del cinema uno dei suoi più grandi autori.
Il film più "oscuro" (principalmente a causa dell'invisibilità a cui è stato a lungo condannato) e a nostro avviso più bello di Wong Kar-Wai: ispirandosi (in parte) a un romanzo di Jin Yong (il più popolare autore del wuxia letterario), il regista mette in scena una storia di cavalieri erranti sui generis: eroi malinconici, in lotta con se stessi e con la propria anima, che distruggono le montagne con un solo cenno della mano, ma sono incapaci di venire a patti col passato e con la memoria. Il compianto Leslie Cheung è un ex-guerriero che ora fa il mercenario, e si è ritirato a vivere nel deserto dopo che la sua amata ha sposato suo fratello; Tony Leung Ka Fai uno spadaccino che annualmente gli fa visita, donandogli uno speciale vino che cancella la memoria; Brigitte Lin è fratello e sorella, Yin e Yang che si rivolgono al killer per eliminarsi a vicenda. Questi, e altri personaggi, compongono un affresco potente e caratterizzato da arditi incastri narrativi, impreziosito dalle coreografie marziali di Sammo Hung ma soprattutto dalla fotografia di Christopher Doyle. Per anni relegato a una pallida copia di ciò che era stato, a causa delle pessime edizioni home video internazionali, ha riacquistato visibilità e fulgore nel 2008 con l'edizione Redux: espunta di qualche sequenza (a detta del regista a causa dell'usura del master originale) ma più vicina di qualsiasi altra edizione al film originariamente voluto da Wong. Oggi, più che mai, imprescindibile.
1. A Touch of Zen - La fanciulla cavaliere errante (1969)
Il capolavoro di King Hu, forse il più importante regista della scena hongkonghese degli anni '60 e '70, e tra i pochi "autori" di quel panorama nel senso occidentale del termine. Protagonista ne è Ku, giovane pittore residente in un piccolo villaggio, che si trova ad offrire ospitalità ad una donna perseguitata dalle guardie dell'Eunuco Wei: questi, sanguinario e assetato di potere, aveva fatto giustiziare il padre della donna, dopo che quest'ultimo aveva cercato di denunciare all'Imperatore la corruzione del suo governo. Ku si unirà così alla donna, e al compagno che l'ha fatta fuggire, in una lunga lotta contro gli emissari di Wei.
Misconosciuto, fin quando Enrico Ghezzi non lo programmò in una puntata del suo Fuori Orario a metà anni '90 (insieme a un altro classico del regista, Pioggia opportuna sulla montagna vuota), il film è la summa stilistica del cinema di Hu: ellissi, un uso espressivo e sperimentale del montaggio, un'ultima parte dal taglio onirico e visivamente potentissimo, che non esclude la fisicità dell'azione. Oltre tre ore per una storia di eroi in lotta contro il potere, che riflette sulla natura umana (emblematica la sequenza iniziale della ragnatela) guardando a Oriente e a Occidente: punta di diamante di un genere che non raggiungerà mai più simili vette.