Dopo I riconoscimenti internazionali di Persepolis e Pollo alle prugne, Marjane Satrapi torna, quasi "in punta di piedi", con questo The Gang of the Jotas: un progetto sulla carta lontanissimo dalle due precedenti, celebrate opere, dal piccolissimo budget e con un mood da cinema indipendente, scanzonato e anarchico nell'approccio quanto indefinibile nel genere. Un'opera piccola e frutto in gran parte di improvvisazione, che la regista franco-iraniana ha voluto girare (parole sue) per "riprendere ossigeno" dopo le due precedenti, impegnative prove.
Il film, proiettato fuori concorso al Festival del Film di Roma, è stato "spiegato" dalla regista nel corso dell'incontro stampa tenutosi all'Auditorium, con la Satrapi sempre ironica e divertente nelle risposte, ma anche giustamente tagliente nel momento in cui qualche domanda ha evidenziato un presunto, generico disimpegno, nonché un allontanamento della regista dall'esplorazione delle sue radici (come se fosse vietato, a un artista, esplorare nel suo lavoro un ventaglio più ampio di tematiche).
In effetti, sembra quasi di vedere immagini rubate alla strada. Inoltre, lei si è ritagliata anche un ruolo nel cast, e ha persino ballato!
Se mi riguardo, mi vergogno, sono pessima! Era inevitabile che fossi nel cast, eravamo lì in cinque, non c'era nessun altro, dovevo recitare per forza. La scena del ballo è nata in modo casuale, in Spagna ci sono questi bar con la musica alta, ed io sono una che non riesce a stare ferma: così è nata questa danza, e sul momento abbiamo deciso di accendere la macchina da presa.
E' importante ricordare perché si fanno i film. Io volevo risciacquare la mia anima creativa, tornare al motivo per cui faccio cinema: da bambina la mia creatività si esprimeva disegnando o mettendo in scena piccoli spettacoli. D'ora in poi, dopo ogni grande progetto farò un film più piccolo: il mio prossimo progetto, per esempio, è una produzione americana, ma dopo girerò un piccolo film su un personaggio colpito da un colpo apoplettico, che contratta con Dio il proprio ritorno sulla terra.
Ma lei, quindi, ha rinunciato a riannodare il filo delle sue origini?
No, non ho mollato le mie origini, ma chi ha detto che dobbiamo sempre parlare del nostro paese? Le mie origini mi danno la forza, ma penso di aver diritto di essere interessata anche ad altri argomenti. Magari il senso dell'umorismo del film è legato alle mie origini, quello sì. Il tema delle origini, poi, in Francia è molto sentito, e anche in modo fastidioso: un calciatore con la pelle scura è francese, un delinquente con la pelle dello stesso colore, invece, è un arabo. Così io, quando faccio un film impegnato sono francese, quando invece faccio un film come questo sono iraniana. Ma poi, è dimostrato che veniamo tutti dall'Africa, e quindi è inutile stare a discutere.
Beh, ho un viso iraniano, e i miei genitori vivono lì: il rapporto è questo. Da 13 anni sono lontana dall'Iran, quindi forse non sono la persona più indicata per parlarne. Inoltre, la politica l'ho tentata e non mi piace, e non credo sia il caso di lamentarsi per la nostra situazione: nel mondo ci sono dittature ovunque, c'è chi sta molto peggio di noi, quindi, qualsiasi cosa senta, me la tengo per me. E comunque non sento orgoglio per la mia nazionalità: come si fa ad essere orgogliosi di essere iraniani, o italiani? E' una cosa che non ti scegli, semplicemente nasci in un posto, è casuale. Sarebbe come se fossi orgogliosa di essere donna, non avrebbe senso.
Può parlarci del suo nuovo progetto americano?
Si intitolerà Le voci, e sarà incentrato su uno schizofrenico che, se non prende le sue medicine, sente voci che lo guidano: tra queste, quella del suo gatto che gli dice di uccidere, e quella del cane che invece gli dice di non farlo. C'era questa sceneggiatura, e hanno scelto me per dirigere il film, forse perché mi piacciono i personaggi psicotici...
No! Mai nella vita. Ci vuole impegno e sofferenza per fare un film di animazione, e io sono troppo impaziente, voglio vedere il risultato subito. Magari, tra dieci anni mi sarò dimenticata cosa ha comportato per me fare Persepolis, e allora mi imbarcherò di nuovo in un progetto del genere. Ma per ora me lo ricordo bene, quindi rispondo di no. Dopo quel film, avrei potuto continuare su quella strada e diventare ricca, ma i miliardi non mi interessano. Ho 43 anni, se tutto va bene ne vivrò altri 30, intendo senza essere immobilizzata su un letto con tubicini che mi spuntano dal corpo. Se per fare un film ci vogliono mediamente 3 anni, diciamo che ho davanti a me altri 10 film: voglio farli tutti, e non avere rimpianti quando sarò su quel letto attaccata ai tubicini. Qualche rimpianto potrei averlo solo se decidessi di fare Avatar 2, in quel caso sì.