Avanti e indietro. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Come in preda a un moto ondoso delicato ma costante, Manchester by the Sea imita le maree per raccontarci il futuro e il passato di Lee, un uomo che non nuota più, che vorrebbe andare a fondo, ma galleggia immobile. Chiuso dentro un purgatorio privato, silenzioso, a metà strada tra il marito che non è e il padre che non riesce a essere, quest'uomo si trascina dentro una vita rifiutata di continuo, come se essere ancora vivo fosse una colpa. Anche quando tutto sembra fermo, però, la signora Vita ritorna a bussare, spesso imprevista, spesso non gradita. E lo fa per scuotere, per prenderti a schiaffi e farti sentire un ingrato. Così succede che a Lee, uomo che ha perso tutto dopo un incidente devastante, venga data una nuova occasione per ricominciare. Dopo la morte di suo fratello, gli viene proposta la tutela di suo nipote. Una possibilità che scava dentro di lui, trovando solo nuovo malessere, altra inadeguatezza, ulteriore sofferenza.
Drammatico, sofferto, ma attraversato da una flebile speranza, Manchester by The Sea ci sussurra sottovoce una sincera riflessione sul trauma e sul dolore. Attraverso il volto dolente di uno straordinario Casey Affleck, il terzo film di Kenneth Lonergan tocca corde intime, fa male allo stomaco, si avvinghia con le unghie a qualsiasi forma di senso pur di andare avanti. Però, in questo mare di dolore indicibile, di pentimento, strazio e solitudine, Manchester by the Sea riesce ad essere comunque pieno di vita. Quella che riaffiora all'improvviso, non richiesta, fuori luogo per chi non crede di meritarla.
Quella che si nasconde negli incontri imprevisti, negli abbracci impacciati, nelle occasioni sfiorate, nelle parole non dette per troppo tempo e poi vomitate tutte insieme. Oggi, in occasione del suo arrivo su Infinity TV, torniamo nella fredda Manchester by the Sea (cittadina statunitense del Massachusetts) per seguire le orme di un grande film. Senza essere impetuoso, Manchester by the Sea è impregnato di umanità, erode poco alla volta noi e loro, lo spettatore e i padri, le mogli, i figli, le persone che dicono tutto senza dire niente. Silenziose, pazienti, discrete. Che vanno, vengono, forse ritornano. Avanti e indietro. Come le maree.
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L'apatia del ghiaccio
Fa freddo in questo film. Tanto freddo. In Manchester by the Sea i cadaveri non possono essere seppelliti perché la terra è talmente gelida da impedirlo, i morti sono costretti a rimanere nelle celle frigorifere e i personaggi camminano intorpiditi dal clima severo. In questa atmosfera cristallizzata, il Lee Chandler di un Casey Affleck perennemente afflitto è il simbolo perfetto di un posto inospitale. Il gelo della città impallidisce dinanzi al freddo dentro Lee. Perché quest'uomo non si perdona un errore fatale, una famiglia distrutta, una felicità forse data per scontata quando c'era, e ora svanita nel nulla. Segnato da espressioni implose e caratterizzato da un tono di voce sommesso, il personaggio di Chandler è un nodo inestricabile di emozioni contrastanti. Affleck è eccezionale (e non a caso ha vinto un Premio Oscar come Migliore Attore Protagonista) a far convivere dentro questa mina vagante l'apatia e la rabbia, la nostalgia e le repulsione. Indolente, vittima di un alcolismo che non gli ha permesso di godersi la sua famiglia e castrato dinanzi a qualsiasi forma di affetto, Lee è costretto a rivivere il lutto dopo la morte di suo fratello. Ed è qui che Lonergan è impietoso nel mettere in scena la burocrazia del dolore di un uomo che il dolore lo conosce ormai a memoria. Senza essere scosso o versare le lacrime, nemmeno nello straziante faccia a faccia con la sua ex moglie, Chandler ci viene raccontato come un'anima in pena, che non si perdona la colpa di essere ancora vivo.
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Paesaggio stato d'animo
Talmente importante da guadagnarsi il titolo del film stesso, l'ambientazione vive in stretta connessione con Lee e con la storia. La regia di Kenneth Lonergan, elegante, schietta e priva di fronzoli, crea un continuo parallelismo tra i luoghi e le persone, l'ambiente e gli stati d'animo. Campi lunghi e panoramiche su alberi innevati, navi che ormeggiano su un mare freddo e le perenne insistenza al richiamo del ghiaccio (dagli obitori ai campi di hockey) fanno sì che persino lo spettatore avverta il freddo dentro le ossa. E per una volta nemmeno il mare riesce a dare respiro a un racconto a suo modo asfissiante e claustrofobico, in cui ogni personaggio non riesce a liberarsi dal fardello pesante del proprio passato. Quello di Lonergan, che da Giovanni Verga sembra aver ripreso anche l'importanza di barche familiari altamente simboliche, è un realismo cinematografico rigoroso e crudele, ma non privo di timidi slanci vitali.
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I tempi del dolore
Volti, luoghi e tempi. Il dolore spiegato in ogni sua forma e declinazione. Laddove Affleck assume la fattezze di un essere umano consumato dal trauma e il paesaggio si specchia nel suo gelo, anche la componente temporale assume un ruolo fondamentale nel film. Manchester by the Sea procede con dei tempi dilatati, spesso morti, basandosi su sequenze che possono persino apparire banali o inutili ai fini del racconto. E invece no. No, perché Lonergan ha dimostrato una precisione chirurgica nel mostrarci i tempi del dolore. Ogni momento è amplificato, con i minuti che durano ore e le ore che sembrano giorni interi. Ecco che il film è cadenzato da tantissimi silenzi e molti sospiri sovraccarichi di insofferenza. Grazie alla precisa volontà di non riprendere qualcosa di eccezionale, Manchester by the Sea è un'opera calata nella normalità e nell'ordinario. Una condizione esistenziale alienante e sofferta che riesce a essere assai credibile agli occhi di un pubblico che affoga e respira assieme a un uomo che forse, alla fine, avrà imparato la differenza tra galleggiare e riprendere a nuotare.