Datemi una ragazza ad un'età plasmabile ed è mia per la vita! Voi ragazze siete la mia vocazione: se dovessi ricevere una proposta di matrimonio domani, da Lord Lyon, Re d'armi, la rifiuterei. Io mi dedico a voi nei miei anni in fiore, e la mia estate in Italia mi ha convinto che sono davvero nei miei anni in fiore...
La voce squillante e bizzarramente stridula di Maggie Smith risuona ad un ritmo incalzante nell'aula che la sua Jean Brodie percorre con passo sicuro e a testa alta sotto gli occhi delle sue allieve, rapite dal carisma di quella figura slanciata e sottile che parla e si muove con la padronanza di un'attrice consumata. La componente di teatralità insita in Miss Jean Brodie, la protagonista del film del 1969 La strana voglia di Jean, rappresenta del resto una caratteristica ricorrente in numerosi personaggi a cui Maggie Smith ha dato vita nell'arco di ben sette decenni di attività.
Un'enfasi ben studiata, la capacità di attirare subito l'attenzione del pubblico, un istrionismo frutto di un'astuta consapevolezza: tutti elementi riproposti spesso da Margaret Natalie Smith, nata il 28 dicembre 1934 a Ilford, nella periferia di Londra, nel corso di una carriera che, dai palcoscenici britannici, l'avrebbe portata ad attraversare con successo il cinema e la televisione, entrando nell'immaginario di più generazioni.
Maggie Smith e le sue irresistibili snob
Non a caso, a definirne la statura iconica basterebbe il fatto che l'espressione "un ruolo alla Maggie Smith" ci induce a identificare immediatamente una ben precisa tipologia di personaggi: donne freddamente ironiche e ostentatamente snob, il cui umorismo oscilla però in un ventaglio di varianti pressoché sterminate. In altre parole, Maggie Smith non è mai stata quella che si suole definire una trasformista: pur essendosi destreggiata con impeccabile disinvoltura fra i generi più diversi, dal dramma alla commedia, dal giallo al fantasy, il grande pubblico l'ha sempre associata a una certa categoria di ruoli, al punto da aver definito un vero e proprio archetipo. Un archetipo rivisitato più e più volte, soprattutto nei suoi film più popolari, e culminato nel 2010 nel divertente ritratto di Violet Crawley, l'altezzosa Contessa del serial in costume Downton Abbey: un personaggio costruito appositamente da Julian Fellowes attorno al sarcasmo affilato della sua interprete.
Eppure, dietro la facciata del typecasting, a darci una prima misura del talento sconfinato di Maggie Smith è stata proprio l'abilità nel modulare questi tratti distintivi in maniera mai banale, ricorrendo a un'infinita gamma di sfumature, alla ricerca di quelle più adatte per ogni singola occasione: l'eccentricità sfrontata e sopra le righe dell'Augusta Bertram di In viaggio con la zia, trasposizione del maestro George Cukor di un romanzo di Graham Greene; l'umorismo tenuto in saldo in equilibrio sul filo della parodia in Invito a cena con delitto e nella commedia satirica Pranzo reale; la rigidità della Charlotte Bartlett di Camera con vista e della madre superiora di Sister Act, complementare alla verve scatenata di Whoopi Goldberg; e da lì in poi, una variopinta galleria di mature signore inglesi dallo sguardo severo e dalla battuta tagliente, dalla Lady Hester di Un tè con Mussolini alla scontrosa Muriel Donnelly del fortunato dittico Marigold Hotel, passando ovviamente per il fenomeno Downton Abbey.
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Da Gosford Park a Camera con vista, fra British humor e sentimenti repressi
Si era talmente abituati a vederla in ruoli del genere, ruoli che le calzavano come un guanto, da rischiare di non far caso a quelle pennellate con cui, invariabilmente ma con navigata nonchalance, Maggie Smith riusciva a sottrarsi alla gabbia del cliché, a condire le sue doti di attrice brillante con l'intuito necessario a far emergere la specificità di un personaggio. Si prenda, a tal proposito, la Contessa Constance Trentham, antesignana di Lady Violet e nata anch'essa dalla penna di Julian Fellowes, autore nel 2001 della sceneggiatura di Gosford Park: nel capolavoro del veterano Robert Altman, splendido affresco corale inserito in una cornice da giallo classico alla Agatha Christie, la Smith ruba puntualmente la scena con le sue adorabili idiosincrasie, la perfezione geometrica dei tempi comici, lo snobismo ormai familiare ma riprodotto con la più estrema naturalezza. La Lady Constance di Gosford Park, che sarebbe valsa all'attrice inglese la sua sesta e ultima nomination all'Oscar, ci induce a ridere di lei, ma anche con lei, a conferma della spontanea complicità fra spettatori e interprete.
Laddove, però, si rivelava appieno la profondità del talento di Maggie Smith era quando si trattava di disegnare ritratti più compositi e contraddittori, talvolta lavorando in sottrazione e facendo leva sui non detti. È il caso, ad esempio, di Camera con vista, diretto nel 1985 da James Ivory dall'opera letteraria di Edward Morgan Forster: nella scena d'apertura, la dama di compagnia Charlotte Bartlett esprime un irritato disappunto verso il suo albergo fiorentino per non aver ottenuto la camera con vista del titolo, racchiudendo in una manciata di battute la chiusura mentale e l'endemica superbia del suo personaggio. Ma a poco a poco, osservando i lampi di incertezza nei grandi occhi della Smith, si può percepire qualcos'altro al di là di quel tremebondo conformismo: il tarlo di un dubbio strisciante, sintomo forse di un oceano di sentimenti repressi, di un animo non così arido come si sarebbe indotti a credere.
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Judith Hearne, Diane Barrie, Jean Brodie: donne sull'orlo di una crisi di nervi
Un conflitto silenzioso a cui invece, nel 1987, l'attrice darà volto e voce ne La segreta passione di Judith Hearne di Jack Clayton, perla seminascosta della sua filmografia. La struggente malinconia di Judith Hearne, donna irlandese di mezza età dilaniata da una sommessa frustrazione, ci indirizza verso un'altra caratteristica dei personaggi più belli nel repertorio della Smith: la vulnerabilità celata ad ogni costo, ma che l'attrice sa far trapelare anche solo con una smorfia delle labbra, con un'inclinazione della sua voce nasale o nel breve spazio di uno sguardo che si colora di rimpianto.
Se ne La segreta passione di Judith Hearne ce ne dà prova in chiave drammatica, nel 1978 il peso del tempo perduto, delle occasioni mancate, di una quotidiana insoddisfazione aveva preso forma in quella che rimane la sua massima prova di recitazione nel campo della commedia, ricompensata con l'Oscar come miglior attrice supporter: Diane Barrie, star inglese che si reca a Hollywood per presenziare alla cerimonia degli Oscar, in California Suite di Herbert Ross, film a episodi tratto dalla pièce teatrale di Neil Simon, dove la Smith affianca Michael Caine in una "scena da un matrimonio" in cui si intrecciano rancori, nevrosi, affetto e disillusione.
Ma l'autentica punta di diamante della sua carriera, quella che nel 1969 ne avrebbe sancito a tutti gli effetti l'ingresso nell'Olimpo dei grandi e le avrebbe fatto guadagnare il premio Oscar come miglior attrice, rimane Miss Jean Brodie, insegnante di un collegio femminile di Edimburgo, la cui spiccata propensione a un romanticismo sui generis le permette di esercitare un insolito potere di fascinazione sulle proprie allieve. Adattamento diretto da Ronald Neame del romanzo Gli anni fulgenti di Miss Brodie di Muriel Spark, La strana voglia di Jean è il film in cui Maggie Smith offre la sua interpretazione più memorabile: un'interpretazione imperniata sull'ambiguità morale di una donna che inneggia a Francisco Franco e Benito Mussolini, ma un attimo dopo si commuove immaginando il primo incontro fra Dante e Beatrice; che dichiara fieramente di essere nei propri "anni in fiore", ma il cui vitalismo non può obliterare del tutto un substrato di inconfessabile inquietudine; che brama in maniera spasmodica di essere considerata un'eroina, ma di cui Maggie Smith, da attrice sontuosa qual era, ci mostra piuttosto la complessa, patetica, dolorosa umanità.