Lucido e feroce. L'esordiente cileno Felipe Gálvez Haberle racconta lo sterminio degli indios da parte dei coloni bianchi assumendo un punto di vista atipico. Come svela la recensione di Los Colonos, la pellicola racconta il viaggio di tre uomini al servizio di un ricco colono cileno che vuole la sua terra ripulita dagli indios Selk'nam, nativi della regione, colpevoli di distruggere le recinzioni e uccidere il suo bestiame.
Da John Ford a Robert Aldrich, sono molti i cineasti che hanno raccontato la conquista del West attraverso missioni impossibili nel deserto di cavalieri destinati a cavalcare verso il tramonto. Privato dell'afflato epico e della patina romantica con cui il cinema americano ha abbellito la propria storia - massacri dei nativi compresi - Felipe Gálvez Haberle si sposta un po' più a sud per realizzare una pellicola sporca, aspra e violenta in cui viene negata ogni possibilità di redenzione e il male alberga a ogni livello, sia tra i ricchi proprietari terrieri che tra i loro sottoposti. Nel raccontare il Cile coloniale, il regista non fa sconti. Le violenze si susseguono e alcune sequenze mettono a dura prova lo spettatore tanto sono brutali, ma a rendere la visione quasi insostenibile è l'atmosfera di dolore che avvolge ogni singolo fotogramma.
Gli orrori del colonialismo
Alfredo Castro, attore feticcio di Pablo Larrain, interpreta il ricco e spietato commerciante di lana José Menéndez, che possiede vasti appezzamenti di terra sia in Cile che nella Patagonia Argentina. Per mettere ordine nelle sue proprietà e stabilire una rotta commerciale sicura verso l'Atlantico, Menéndez assolda tre mercenari che fungano da braccio armato: il ruvido tenente scozzese Alexander MacLennan (Mark Stanley), il cowboy americano spaccone Bill (Benjamin Westfall) e il taciturno meticcio Segundo (Camilo Arancibia), scelto come guida per la sua conoscenza del territorio e per l'incredibile mira. Insieme, i tre si addentreranno nella Terra del Fuoco "purificandola" dagli indigeni a suon di stupri e violenze.
Se il corpo centrale di Los Colonos, scandito in capitoli dai titoli inquietanti quali Il re dell'Oro Bianco, Meticcio, La Fine della Terra e Porco Rosso, si distingue per compattezza e rigore, il film di Felipe Gálvez Haberle si concede un ultimo blocco, ambientato sette anni dopo gli eventi chiave. L'arrivo nella proprietà di José Menéndez di un emissario del governo cileno (Marcelo Alonso), che tenta di fare il punto sulla sorte degli indios ricostruendo le violenze di MacLennan, getta una luce ancor più oscura sulla vicenda in un finale agghiacciante. È proprio in questo blocco conclusivo, apparentemente il più mondano, che il regista tira le fila del discorso denunciando le malefatte dei colonizzatori europei e dei latifondisti sudamericani in un afflato anticoloniale e nichilista.
L'inferno alla fine del mondo
L'inferno della Terra del Fuoco risucchia tutti i personaggi nel suo vortice. In questa landa desolata abbandonata da Dio e dagli uomini, la brutalità domina su tutto e tutti. A farne le spese non sono solo gli indios, vittime sacrificali della mattanza bianca, ma anche gli stessi mercenari al servizio di Menéndez. In un coacervo di lingue, accenti e A turno, anche i carnefici diventano vittime a loro volta là dove la speranza sembra solo un'utopia. Per amplificare la sua denuncia, Felipe Gálvez Haberle mette a frutto la lunga esperienza da montatore inventandosi uno stile visivo in cui forma e contenuto si compenetrano vicendevolmente.
Bandito ogni compiacimento nel ritrarre la pampa desolata, le greggi e le montagne all'orizzonte, il regista evita il formato panoramico tipico del western, comprimendo l'immagine in un più soffocante ratio 3/2. Pochi i primi piani, utilizzati soprattutto per indagare i sentimenti dello sconcertato Segundo, costretto a sottostare all'orrore perpetrato dai suoi compagni di viaggio, mentre dell'inglese e dell'americano abbiamo per lo più immagini sfuggenti, piani più ampi che ne evidenziano l'abbrutimento interiore ed esteriore. Il regista rovescia la prospettiva del western classico trasformando antieroi in protagonisti e mettendo in scena un viaggio che conduce alla Fine del Mondo, nel luogo più desolato e disperante, là dove né una nuova esistenza né il tempo che passa sono in grado di cancellare l'orrore testimoniato.
A stonare in quest'opera così coerente e rigorosa sono alcuni momenti di stanca nella storia e alcune performance non all'altezza. Perfino il carismatico Alfredo Castro passa inosservato in un ruolo tanto sacrificato da risultare incolore.
Conclusioni
Il western atipico di Felipe Gálvez Haberle ricostruisce una pagina nera della storia colonialista del Cile raccontando la strage degli indios per mano di mercenari angloamericani e spagnoli. Una pellicola cupa e brutale raccontata con tono lucido e forma rigorosa, anche se non priva di qualche sbavatura nelle interpretazioni non sempre all'altezza.
Perché ci piace
- Il rigore formale e le scelte stilistiche.
- La volontà del regista di creare un nuovo linguaggio decostruendo il western tradizionale.
- La denuncia forte e chiara contro il colonialismo.
Cosa non va
- Momenti di stanca nell'andamento narrativo.
- Alcune performance non all'altezza.