Dopo aver vinto sia il Gran Premio della Giuria che quello per la Miglior Regia al 25° Festival di Tokyo ed aver riscosso un grande successo alla presentazione in anteprima all'ultimo Torino Film Festival, il film diretto dalla regista francese di origini ebraiche Lorraine Lévy si appresta ad arrivare nelle sale italiane. Uscirà infatti il prossimo 14 marzo, grazie alla Teodora Film, Il figlio dell'altra, un delicato dramma familiare narrato sullo sfondo del conflitto israelo-palestinese ed incentrato sull'accidentale scambio di due neonati alla nascita avvenuto quasi diciotto anni prima nell'ospedale di Haifa. Joseph, un giovane intenzionato ad arruolarsi nell'esercito israeliano, e Yacine, che vive nei territori occupati della Cisgiordania e sta per lasciare i genitori per andare a studiare in Francia, scopriranno così di aver vissuto ognuno la vita dell'altro, una verità dolorosa quanto inaspettata che costringerà loro stessi e le loro rispettive famiglie a mettere in discussione le rispettive identità e le loro convinzioni riguardo alla guerra. Interpretato magistralmente da tutto il cast (che recita in ben quattro lingue diverse), capitanato da una strepitosa Emmanuelle Devos, Il figlio dell'altra è stato presentato stamattina dalla regista, che ha già due film all'attivo mai usciti in Italia (La première fois que j'ai eu 20 ans e Mes amis, mes amours), lanciatasi con coraggio in un argomento complicato e controverso in maniera del tutto neutrale. Il risultato ottenuto, suo malgrado, è quello di aver sviscerato uno dei temi più dolorosi dei nostri tempi in un film che non può che essere considerato un'opera di grande riflessione politica e sociale.
Signora Levy, il film è uscito nei paesi arabi? E se sì come è stato accolto dal pubblico?Tra due settimane sarò a Tel Aviv per la presentazione ad un festival ma non è ancora uscito in sala nonostante sia stato già visto a Gerusalemme sempre in una manifestazione cinematografica. Ho avuto modo però di tastare le impressioni del pubblico attraverso i social network e sono contenta della risposta molto positiva che ho potuto riscontrare. Quello che per me era più importante era che sia gli israeliani che i palestinesi si sentissero rispettati e per fortuna è stato così.
E' molto bello il momento in cui i due padri discutono animatamente sulla questione dei territori occupati e viene fuori la parola apartheid...
Il figlio dell'altra è un film che invita alla riflessione, al dialogo e al cambiamento. Nella scena in questione i due uomini non riescono a trattenersi e finiscono per affrontarsi parlando con toni parecchio accesi di politica e di guerra, sapevo già da prima che sarebbe stata una scena difficile da girare perché i due attori scelti sono un grande difensore di Israele, Pascal Elbé, mentre Khalifa Natour è un convinto sostenitore della causa palestinese.
Ricordo che la sera prima di girarla eravamo tutti insieme e ognuno dei due mi disse di voler avere l'ultima battuta nella scena. Ovviamente non potevo né volevo prendere posizione quindi alla fine li ho lasciati fare fino a che l'uno non arriva a parlare sopra l'altro e poi li ho interrotti grazie all'aiuto di Emmanuelle Devos. E' stato difficile tenerli a bada e io non volevo nascondere nulla allo spettatore, volevo che venissero ascoltate entrambe le loro verità.
Ci spiega come ha scelto il luogo panoramico in cui girare l'inquadratura finale del film?
Quando il ragazzo arabo, Yacine, scopre la verità sulla sua vera identità va a rifugiarsi in questo luogo, un bellissimo posto che offre uno sguardo a 180 gradi sulla valle che ho voluto riprendere nel finale con Joseph al suo posto. Due metà di una stessa identità che confluiscono e che offrono una visione globale, la metà israeliana e la metà palestinese che per un momento si fondo insieme come in un cerchio che si chiude. Era questo il senso della scena finale.
Di Khadra avevo avuto modo di leggere 'L'attentato' e ho deciso di fargli leggere il copione per capire le sue impressioni ed evitare che fosse squilibrato, e lui gentilmente ha partecipato annotando diverse indicazioni che poi ho sfruttato per riequilibrare e rendere più precisa la storia. La sceneggiatura l'avevamo scritta in tre, due ebrei insieme a Nathalie Saugeon che è cattolica, quindi avevo bisogno di un parere da parte araba. Amos Oz purtroppo non l'ho mai incontrato ma è come se facesse parte della mia famiglia perché ho distribuito ai membri della troupe un suo libro, una raccolta di interviste da lui rilasciate intitolara 'Imaginer l'Autre', che contiene lo stesso messaggio che il film vuole comunicare. Nel film sono le donne, le mamme per l'esattezza, le prime ad accettare quel che è accaduto diciotto anni prima , secondo lei è davvero possibile un dialogo?
La risposta a questa domanda è il film stesso, ho avuto una troupe composta sia da israeliani che da palestinesi, tutti ci tenevano moltissimo affinché il film venisse realizzato e venisse mostrato che uno spiraglio di speranza può e deve essere aperto. Ricordo che il giorno dei provini di casting (che sono stati due diversi, uno per gli attori arabi e uno per quelli palestinesi) ci fu un attentato in una stazione degli autobus e si scatenò il panico. Vennero chiusi tutti i checkpoint ed io ero convinta che non sarebbe venuta nessuna attrice palestinese ed invece su dodici ne vennero tre, tra le quali scelsi Areen Omari per il ruolo della mamma araba. Dopo quattro ore di cammino a piedi sulle colline a 40° di temperatura era distrutta dalla fatica ma il suo sguardo mi conquistò immediatamente. Non capivo nulla di quello che diceva, visto che l'interprete era andato via, ma nei suoi occhi c'era una tale forza che non ho avuto dubbi. Oltre che alle donne il cambiamento e il futuro di pace nel suo film è affidato alle nuove generazioni, cosa la spinge a credere che ci sia un così forte distacco tra le vecchie e le nuove generazioni?
Ho avuto la fortuna di incontrare questi giovani e di parlarci e ho capito che ad accomunarli non c'è tanto la voglia di conoscere l'altro quanto la voglia di rivendicare un diritto sacrosanto che è quello di vivere in maniera spensierata la loro età. Ci credo profondamente in questo principio e nutro una profonda speranza per il futuro, se non fosse così forse sarei già morta. Quando riesci ad andare in quei posti capisci subito che la situazione che si vive è complessa ma anche a suo modo molto semplice, basterebbe un nonnulla per risolverla e invece basta una scintilla e tutto salta in aria.