Tra l'uscita di Bussano alla porta di M. Night Shyamalan, la presenza ancora imperante di Avatar: La via dell'acqua in sala, il ritorno di Everything Everywhere All at Once e l'arrivo dei sensazionali Tar con Cate Blanchett e Decision to Leave di Park Chan-wook, nei cinema italiani esce anche un piccolo e meritevole docu-film. Presentato lo scorso ottobre alla Festa del Cinema di Roma, Life Is (Not) a Game di Antonio Valerio Spera vuole essere un ritratto fuori canone di un curioso quanto affascinante personaggio della street art capitolina noto come Laika, tentando al tempo stesso di calarsi in un'ampia e dedicata riflessione su alcuni dei più recenti mali della società civile, correlati soprattutto a salute, politica e diritti umani.
La Bansky nostrana
La prima domanda fondamentale del film è: chi è Laika? Esattamente come il mitico studio d'animazione stop motion fondato da Phil Knight (e guidato dal figlio Travis), la scelta del nome Laika fa riferimento alla prima cagnolina inviata nello spazio nel 1957, ma è più un'ispirazione concettuale che concreta. La missione che si prefigge l'artista romana - che preferisce essere descritta come "attacchina" - è quella di avere un quadro della situazione più ampio possibile, osservando da dentro ma anche dall'alto i meccanismi e le problematiche del mondo odierno. Ampia significa generale e mai generica, cioè aperta all'universalità delle tematiche fondamentali affrontate, non solo meramente italiane.
Dall'alto, invece, tende a sottolineare la costante ricerca di Laika per un quadro situazionale il più possibile pragmatico, atto a rispecchiare insomma un'effettiva e impellente criticità. Lo fa appunto vivendo in prima persona la società di cui fa parte, essendo Laika un nome d'arte e la sua vera identità sconosciuta, e informandosi da cittadina del mondo sulla situazione umanitaria nel globo. Una volta scelto il tema su cui lavorare - siano personaggi o argomenti d'attualità -, Laika elabora la sua opera - solitamente dei manifesti ottimamente realizzati e incollati poi ai muri di Roma (per questo "attacchina"). Gira con una maschera e una parrucca rossa, vestita con una tuta da imbianchina con il cappuccio alzato. Vuole essere riconosciuta e insieme rappresentare un mistero.
Ma anche aiutare a far sì che di alcune cose si parli: del razzismo contro la comunità cinese nel primo periodo della pandemia di Coronavirus (celebre il poster #Jenesuispasunvirus), della crescente diffusione dei No Vax nel momento della somministrazione dei vaccini o delle torture e degli abusi vissuti dal compianto Giulio Regeni e da Patrick Zaki nelle carceri egiziane (il manifesto in cui il primo abbraccia il secondo con la scritta "questa volta andrà tutto bene"). L'attitudine a celare la propria identità, il suo stile street pop così ragionato e l'abitudine a "rilasciare" le sue opere così pregnanti in luoghi disparati le hanno conferito l'appellativo popolare di Bansky italiana, che bisogna ammettere le si addice alquanto.
The Game
Con sguardo pop e sincero, tra contaminazione di stili e voglia di donare al prodotto un'aura intellettuale, Spera entra nella vita e nella quotidianità dell'artista seguendo i suoi blitz e i suoi interessi da vicino. Non cerca di smascherare o indagare sul personaggio, la ragazza dietro la maschera, perché il focus è appunto l'arte di Laika, il suo credo, il suo modus operandi. Non aspettatevi quindi di scoprire chi sia il vero volto dell'attacchina, perché è proprio la maschera la più grande suggestione della street artist, forse addirittura la sua vera faccia, quella con cui riesce a esprimersi liberamente rispondendo a una necessità prima di tutto comunicativa e stilistica e secondo poi umana. È anche per questo che la seconda parte del docu-film si concentra su di un viaggio di Laika in Bosnia all'inizio del 2021, lo stesso che dà poi il titolo al progetto.
In questo suo reportage insieme a Spera, Laika denuncia le condizione dei migranti sulla rotta balcanica, le terribili condizioni di vita degli stessi - all'addiaccio e senza cibo -, i loro sogni di un futuro migliore. Parlano della loro migrazione come del "gioco": un azzardo forzato e dispendioso di soldi ed energia per provare a vincere il domani. E qualcuno partecipa da anni al gioco, a volte ricominciando anche tutto da capo. Ma la vita non è un gioco e il gioco non è la vita. Laika lo grida forte nel silenzio della sua arte: affigge un poster al confine e fa lo stesso pochi mesi dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Per raccontare qualcosa di importante con la sua solita visione tra denuncia e opera d'arte.
Conclusioni
Insieme racconto quotidiano e artistico, denuncia sociale e viaggio, Life Is (Not) A Game è una buona panoramica dell'opera e della missione di Laika, "attacchina" capitolina paragonata a Bansky. Un docu-film che ripercorre due anni di vita della street artist e contribuisce a elevarne fascino stilistico e anche mistero, interessato com'è proprio alla maschera della donna e non al suo vero volto, al messaggio nel nome del personaggio e non all'identità anagrafica di chi ne veste i panni. Un buon modo di parlare di tante tematiche attuali e nobilitare l'arte a strumento di diffusione positiva, senza legacci e munita solo di tanta colla e coraggio.
Perché ci piace
- Il taglio pop dato al documentario da Antonio Valerio Spera.
- La volontà di raccontare il personaggio e la sua arte, non chi "lo interpreta".
- Le tante tematiche d'attualità affrontate in modo distaccato eppure vicino e accorato.
- Esce in sala...
Cosa non va
- ... anche se in un momento ricco di altri titoli importanti.
- Non aspettatevi una sorta di monografia cinematografica su Laika.