"C'era una volta a Paimpont...". Inizia con lo schermo nero e una musica da fiaba Les Barbares (Meet the Barbarians), l'ultimo film scritto, diretto e interpretato da Julie Delpy presentato fuori concorso al Torino Film Festival. Nella cittadina della Bretagna, dove c'è una sola strada principale intitolata ad un'artista donna in sostituzione di una targa dedicata a uno stupratore, tutto procede sempre uguale. Un'armonia apparente fatta di assemblee cittadine, buon vicinato e rispetto della democrazia.
Così, quando il sindaco (Jean-Charles Clichet) decide di accogliere una famiglia di rifugiati ucraini dopo l'invasione russa e il conseguente scoppio del conflitto sono tutti d'accordo. La cittadina si veste a festa e si prepara ad aprire la porta ai nuovi arrivati. Ma "gli ucraini sono molto richiesti sul mercato dei rifugiati" e così a Paimpont arriva un'altra famiglia. La loro origine è siriana e la notizia che getta nel panico parte della comunità.
Meet the Barbarias: smascherare l'ipocrisia con la satira
"Che cos'è il razzismo?", chiede l'insegnante Joëlle (Delpy) ai suoi giovani studenti. La regista prova a rispondere con questa commedia dai toni leggeri ma capaci di arrivare dritti al punto. Un approccio intelligente che permette a Delpy, attraverso la satira e una serie di situazioni e personaggi, di prendersi gioco dell'ipocrisia che caratterizza la nostra parte di mondo. La solidarietà cambia in base alla provenienza geografica e al colore della pelle di chi ha bisogno di aiuto. E quindi, si domanda la regista, chi sono i barbari? Loro o noi?
Delpy in Les Barbares mette in scena una serie di personaggi, a partire dalla sua battagliera insegnante, grazie ai quali mostrare con una sceneggiatura mai pedissequa atteggiamenti di rifiuto, menefreghismo, paura. Da Hervé (Laurent Lafitte), idraulico che più più di tutti mal sopporta l'arrivo dei rifugiati perché "ci sono anche molti francesi che soffrono", a Philippe (Mathieu Demy), proprietario del minimarket locale che quell'aiuto lo scambia per "troppa generosità".
La forza della commedia
L'esperimento di accoglienza viene inizialmente testimoniato da un documentario commissionato dalla tv regionale che abbandona il progetto perché "troppo aneddotico", mentre un gruppo di identitari (ideologia politica di estrema destra, ndr) fa irruzione nella cittadina per _"difendere"_i valori occidentali. Tutti in città hanno una propria opinione o un giudizio da sentenziare. E poi ci sono loro, i Fayad. Una famiglia siriana composta dall'architetto Marwan (Ziad Bakri) e sua moglie, la graphic designer Luna (Dalia Naous), dalla sorella medico Alma (Rita Hayek) rimasta senza una gamba dopo un bombardamento nell'ospedale in cui lavorava, il nonno Hassan (Fares Helou) e i due figli, l'adolescente Dina e il piccolo Waël.
Persone rimaste senza nulla, costrette a vivere in un campo profughi per poi volare a chilometri di distanza dalla loro terra dove sono sottoposti al pregiudizio altrui. Oltre a dover mettere da parte le proprie professioni per accettare un qualsiasi impiego pur di guadagnare del denaro. Julie Delpy ci mostra la fatica e l'umiliazione senza mai perdere il suo tono satirico. Il risultato funziona e va dritto al punto evitando lezioni morali o elevandosi al di sopra dei suoi spettatori. È la forza della commedia.
La lungimiranza femminile
Ma Les Barbares, nonostante l'apparente lievità non perde mai di vista l'obiettivo. Lo dimostra la sua divisione in cinque atti. Ad ognuno di loro la regista associa un dipinto che raffigura guerre religiose e coloniali associandole al concetto di supremazia bianca. Inoltre, nel portare avanti la narrazione verso un epilogo risolutivo e positivo la sceneggiatura affida questo potere alle figure femminili. Le uniche in grado di andare oltre l'apparenza e la diffidenza reciproche e affrancarsi da uomini dalla visione piccola e ridicola. Il finale è un po' troppo buonista e, a tratti, irreale. Ma in fondo Julie Delpy all'inizio ci aveva avvertiti. La sua è una fiaba e come in tutte le fiabe che si rispettino è d'obbligo il "e vissero tutti felici e contenti".
Conclusioni
Una cittadina Bretone viene sconvolta dall'arrivo di una famiglia di rifugiati siriani. È l'incipit da cui parte July Delpy per mettere in scena con i toni della commedia e della satira l'atteggiamento guardingo e razzista della società occidentale. Un film che non vuole dare lezioni agli spettatori, ma che riesce comunque a colpire nel segno. Un racconto corale ben gestito in sceneggiatura e messo in scena da un gruppo di attori in parte. Un finale un po' troppo buonista, ma l'incipt fiabesco del film ci aveva avvertiti...
Perché ci piace
- L'uso della commedia e della satira per parlare di argomenti di stratta attualità
- Il ruolo delle figure femminili
- Julie Delpy evita di impartire lezioni morali
- La caratterizzazione e gestione dei personaggi
Cosa non va
- Il finale troppo buonista e irreale