"Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". È qualcosa di innegabile e immutabile nel tempo, come dimostra tanto l'Ulisse di Dante Alighieri, quanto il giornalista Graham Hancock con il suo L'antica Apocalisse, docu-serie disponibile su Netflix: l'essere umano ama il mistero. Posto sul ciglio del baratro della conoscenza, un brivido lo attraversa, spingendolo ad avvicinarsi sempre più al bordo del burrone dell'incognito per osservare e far suo ciò che gli è precluso. Brucia nell'uomo un fuoco di conoscenza, alimentato da fiamme brucianti di eterna presunzione che lo convince di avere tra le mani il sapere del mondo, di essere raggiunto a tappare ogni buco storico, aver colmato ogni lacuna conoscitiva.
Eppure, molto ancora c'è da scoprire; infiniti mondi ci circondano sospirandoci all'orecchio pagine di una storia incompleta, ricordi di universi andati perduti e intagliati su pietra, immortalati su colonne, costruiti su siti archeologici vestiti di erba, fango, omertà. Come sottolineeremo in questa recensione de L'antica apocalisse, il viaggio del mondo (antico) in otto puntate compiuto da Graham Hancock si propone di levarci quel velo di Maya che ci preclude la vista per osservare con occhi nuovi le testimonianza di un passato dimenticato nella prospettiva che una nuova, probabile, apocalisse non ci colga impreparati. Con il suo documentario Hancock tenta di dare nuova essenza a cimeli di un passato che non accettiamo perché incapaci di interpretarli, integrando di nuove pagine la storia dell'umanità.
Viaggio del mondo antico in otto puntate
Gunung Padang in Indonesia; Cholula in Messico; i templi megalitici di Malta; la formazione rocciosa di Bimini al largo della costa di Miami; il Göbekli Tepe e la città sotterranea di Derinkuyu in Turchia; i tumuli a forma di serpente in Nord America: è un saggio redatto con la forza del viaggio quello realizzato da Graham. Una ricerca costante di prove convincenti e tangibili che vadano a confermare la sua teoria circa la presenza di una civiltà intellettualmente avanzata spazzata via all'indomani dell'Era glaciale, quando il freddo faceva a gara con un inaspettato aumento delle temperature. Ogni puntata si prefigge di travolgere il proprio spettatore, prendendolo per mano e accompagnarlo in una via fitta di misteri da scoprire, enigmi da risolvere, e tante - troppe - domande a cui rispondere.
E a uno sguardo superficiale la docu-serie firmata Netflix pare raggiungere con estrema facilità l'obiettivo prepostosi, riprendendo e traducendo in linguaggio audio-visivo quanto già avanzato e anticipato nel suo libro Impronte degli dèi (Fingerprints of the Gods), da Hancock nel 1996. Sviluppando il processo psicologico che si attiva a livello inconscio nella mente dello spettatore che vuole che una cosa sia reale solo perché mostrata e resa visibile, il giornalista riprende le sue affermazioni per avvalorare la presenza di tale civiltà, spazzata via da un impatto di una cometa in Antartide circa 13.000 anni fa. Eppure, a un'analisi più attenta, qualcosa scricchiola e lascia alquanto disorientato lo spettatore lungo tale percorso informativo. Troppe nozioni, troppe date, troppa voglia di comunicare e convincere il proprio interlocutore tanto da respingerlo e lasciagli un'acre sensazione di pungente insoddisfazione.
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L'idea geniale che non vuole essere condivisa
Hancock ci prova con tutto se stesso a proporre una teoria personale e innovativa, raccogliendo prove soddisfacenti e anche convincenti circa la veridicità del suo pensiero, senza però avanzare alcuna risposta. È come se dopo aver mostrato tutte le tessere di un puzzle dimenticato, decida di nascondere l'ultimo pezzetto sotto il divano, lasciando tutta l'operazione incompleta. È una tela di Penelope tessuta ogni giorno, e sfilacciata la notte, L'antica apocalisse; un'operazione di costruzione e destrutturazione di nuove possibilità storiche impossibilitata a offrire un epilogo per l'incapacità del proprio autore di accettare la sua conclusione e completezza. È come se Hancock non voglia porre la parola "fine" alle sue ricerche; e così la sua argomentazione, per quanto sostenuta da prove concrete, fatte di paesaggi e siti mastodontici, risulta incompleta, priva di una risposta al quesito preminente e primario: chi sono, e da dove vengono queste civiltà perdute? Sono tanti, troppi, quesiti soddisfatti a metà, questi, nati da un'impossibilità del loro fautore di lasciare andare ciò che ama, ciò in cui crede, per renderlo a tutti gli effetti non più qualcosa di suo, ma di tutti.
Il mistero della soggettività
C'è qualcosa di disarmonico in questa nuova rilettura della storia dell'umanità. È un elemento intangibile, invisibile, che tira il freno a mano di questo treno lanciato a tutta la velocità verso una nuova scoperta storico-antropologica. È un elemento che nasce dallo stesso autore, finendo per sabotare l'intero progetto: si tratta di un egocentrismo alquanto preminente che va a intaccare l'intero sistema narrativo di un meccanismo ben oliato, ma destinato a malfunzionare. La presenza del giornalista e i suoi costanti interventi di carattere personale surclassano quella neutralità di racconto che ci si aspetterebbe da un documentario come quello de L'antica Apocalisse. Hancock parte dalla necessità imprescindibile di portare avanti la sua ricerca di questa civiltà perduta, lanciandosi fin troppe volte in continui atti di accusa contro il mondo degli archeologici, o di chiunque gli impedisca di sviluppare il proprio racconto. Si perde così la preziosità del contenuto trattato, decentrando il nucleo del racconto a favore di attacchi superflui e di impronta fortemente personale.
A battere nel corpo dell'opera documentaristica è dunque un cuore alimentato da un alito di narcisismo. Una spinta egocentrica che si ritrova anche nel modo divergente con cui Graham Hancock conduce le interviste. Investendo l'intero documentario di una costante presenza del suo autore, la macchina da presa si ancora a Hancock, immortalandolo costantemente, tempestando ogni raccordo di inserti superflui che vedono il giornalista colto in momenti diversi e posizioni epiche del suo viaggio intorno al Mondo. A differenza degli esperti intervistati, che allo sguardo in camera preferiscono rivolgersi direttamente all'intervistatore, Hancock ama l'obiettivo della cinepresa, interpellandosi direttamente a esso e - in maniera indiretta - allo spettatore. Così facendo, viene meno quel senso di oggettività che permette all pubblico di avanzare un giudizio personale circa quanto propostogli sullo schermo, ora soggiogato da una presuntuosa saccenteria mai nascosta, ma fin troppo esacerbata.
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Tante nozioni, poca conoscenza
Immergere il proprio spettatore nel cuore del proprio documentario è tutta una questione di tempo e di equilibrio. Lasciando che gli eventi si svelino da soli, senza inficiare troppo con la propria soggettività, il narratore è chiamato a trovare la giusta armonia tra la portata nozionista del proprio racconto, e il tempo necessario affinché ogni informazione venga ben comunicata e percepita dallo spettatore. Un equilibrio che in L'antica apocalisse manca quasi del tutto: l'intero sviluppo narrativo si fonda su una reiterazione continua di concetti già proposti negli episodi precedenti, rimandando l'analisi di parti più meritevoli dal punto di vista contenutistico verso la fine della puntata. Questo porta a un'indagine esigua e superficiale dei siti scoperti, privando di mordace interesse l'intera economia del racconto. Tutto lo sviluppo degli episodi si fa estremamente rapido, tanto da ridurlo a un accumulo di nozioni e date consegnate velocemente dal putto di vista quantitativo, senza spiegarli mai veramente a fondo. Bombardati da una mole così consistente di informazioni e accenni storici dalla portata innovativa, si crea nello spettatore una voragine interna che la regia spettacolare, insieme a un montaggio rapido e coinvolgente tentano di colmare, cancellando come gesso sulla lavagna gli errori commessi dalla controparte narrativa, senza riuscirci appieno.
Poteva essere un viaggio coinvolgente e al cardiopalma, L'antica Apocalisse, forte anche delle analogie raccolte tra i vari siti e la riproduzione grafica che li riporta ai loro fasti iniziali; ciononostante, arrivati all'ultima tappa gli spettatori si accorgono che quello che credevano aver colto non è tanto una teoria innovativa, o straordinaria, quanto un deludente pugno di sabbia. Quella redatto da Hancock è una lezione su come un argomento così interessante possa perdere di valore per l'eccessiva e zelante personalità di chi porta avanti quelle scoperte, tralasciando la loro portata rivoluzionaria, per dar spazio ai propri diverbi personali e incomprensioni professionali.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione de L'antica apocalisse sottolineando come la docu-serie di Netflix avesse a sua disposizione ogni ingrediente per mostrarsi nelle vesti di un'opera ammaliante e travolgente. Grazie a prove inconfutabili circa la riscrittura del nostro passato, le otto puntate potevano conquistare il proprio pubblico se non fossero state soggiogate dalla personalità dirompente del loro autore, il giornalista Graham Hancock. Privando l'opera di un senso di obiettività, la docu-serie si tramuta in una visione del tutto soggettiva e non universale dei fatti narrati, risultando incompleta e poco soddisfacente.
Perché ci piace
- La regia spettacolare.
- Il montaggio dinamico.
- Le teorie avanzate e le prove trovate per confutarle.
Cosa non va
- La presenza e l'egocentrismo di Graham Hancock.
- La durata degli episodi, troppo limitante.
- La mancanza di una risposta circa la provenienza della popolazione indagata.