La presunzione del non cinema
Capita non di rado che molti film, anche di notevole qualità, dopo esser stati presentati nel corso di festival importanti non trovino una distribuzione e scompaiano nel dimenticatoio per molto tempo, quando non per sempre.
Maliziosamente, ma altrettanto sinceramente, è opportuno dire che questo è il destino che molti, compreso il sottoscritto, avrebbero desiderato per questa inguardabile pellicola del filosofo francese, col piglio del cinema, Bruno Dumont, in concorso all'ultima mostra cinematografica di Venezia e catalizzatrice di un quasi plebiscitario dissenso di critica e pubblico. Il film, infatti, oltre a sconcertare nelle sale, dove è stato spesso deriso con metodi al limite del cattivo gusto, quali risate, grida e applausi in momenti tanto drammatici per i protagonisti quanto catartici per gli spettatori, ha monopolizzato il settore delle proteste sul festival coordinato da Gianni Ippoliti (ammetto di aver contribuito anche io con la rabbiosa dicitura "Bruno Dumont fuori dal sistema solare") e le scorribande dialettiche notturne, fornendo ottimo materiale per autentici turpiloqui.
Tutto questo per dire che: quando un mio collega di redazione, pochi giorni fa, mi ha innocentemente messo al corrente dell'uscita del film, un brivido è corso sulla mia schiena; quel brivido è diventato inquietitudine di fronte alla prospettiva di dedicargli una recensione. Ma il dovere è dovere; partiamo dall'inizio.
Abbiamo una coppia intrinsecamente diversa e conflittuale, dialetticamente nulla. Lui (David Wissak) è un fotografo americano che vaga molto lentamente cercando suggestive location, a volte impreca, spesso urla e spesso, molto spesso, ha crisi d'astinenza sessuale. Lei (Yekaterina Golubeva) è russa ma parla in francese e lo accompagna, molto lentamente; a volte pensa, più di frequente piange, ama profondamente i cani, ma in definitiva si mantiene il suo uomo perché condivide con lui l'intensità parossistica dei raptus sessuali freeclimbing e la necessità di consumarli fragorosamente nei posti più impensabili, anche tra le rocce bollenti infestate di serpenti ed altri simpatici animali.
Il loro in realtà è amore puro, perché istintuale e non cerebrale, ma non avrà modo di essere celebrato coi riti della società adulta e borghese per un incidente di percorso (una sequenza di stupro tanto forte quanto grottesca) che devasta nel corpo e nella mente così profondamente il compassato e iroso fotografo da necessitare la conclusione in tragedia, fondamentale per un plot che sopperisce alla piattezza contenutistica mediante l'irrazionalità degli eventi e la sterile disturbanza di questi.
Quello che più turba veramente di questo Twentynine Palms è l'idea che sottende, per la quale la presunta presa d'atto della crisi di rappresentazione del cinema debba risolversi nel minimalismo, nella provocazione, nella non interpretazione, in dialoghi privi di senso e di interesse e nel volutamente dilettantistico uso della presa diretta. Il suo cinema pseudo-intellettualistico non utilizza una grammatica sovversiva per portarci da qualche parte; vorrebbe citare Zabrinskie Point, ma celebra piuttosto la non estetica del nulla, celandosi nel ricatto (erroneo tra l'altro) che è ormai impossibile emozionare ed affascinare il pubblico con il cinema, e quindi colpisce basso. Ma Dumont non ci dice niente di nuovo neanche in questo e se il suo cinema è mortificante, anche il suo intento provocatorio è privo di mordente. In fondo, uno come Orson Welles, che i film li sapeva fare, eccome, lo diceva già qualche decennio fa: "Un film sbagliato è un film sbagliato. Due film sbagliati sono una ricerca. Tre film sbagliati sono uno stile". Dumont è al suo terzo film, ha quindi uno stile, uno stile che non ci piace.