La perfetta equivalenza tra cinema e fumetto
Basin City, confidenzialmente Sin City, è una città che fa onore al suo soprannome, quintessenza del marcio, della corruzione, della violenza e delle depravazioni che caratterizzano le società metropolitane. Tra le vie buie e piovose, i vicoli lerci, i locali d'infimo d'ordine, gli squallidi appartamenti che ne costellano la topografia si muovono - dirompenti o silenziosi, a seconda dei casi - killer e prostitute, poliziotti onesti e corrotti, ladruncoli e maniaci, mentre arroccati nelle loro fortezze i potenti senza scrupolo che la governano li osservano da lontano. L'incontro tra questi mondi, tra questi poteri, tra questi personaggi, è spesso letteralmente esplosivo a Sin City: e allora capita che un bestione mezzo sciroccato di nome Marv dia il via ad una feroce vendetta per scoprire gli assassini di una prostituta che è stata l'unica donna a fargli sentire il calore dell'amore. Capita che un poliziotto onesto metta sul piatto la sua vita per salvare una bambina da un pedofilo figlio di un onnipotente senatore, che finisca in prigione e perda la reputazione per crimini mai commessi per proteggerla e che dopo anni di galera la ritrovi bellissima e sensuale ma ancora in pericolo. Capita che un ex fotografo e killer debba aiutare la comunità di prostitute della città vecchia a coprire l'omicidio "accidentale" di un poliziotto, rischiando una guerra contro la Mala.
Tutto questo avviene nella città di Sin City, nella splendida serie di graphic novel di Frank Miller - nata nel 1991 e arrivata nel corso degli anni a contare sette splendidi volumi - e in un film innovativo e dirompente come quello diretto da Robert Rodriguez con la collaborazione dello stesso Miller (sì, c'è anche Quentin Tarantino, per poco, ma per una volta mettiamolo da parte...).
Quello di portare al cinema Sin City era un vecchio sogno del regista texano, sogno visionario che ha realizzato nella maniera più completa che si potesse pensare grazie alle tecnologie digitali, girando tutto il film con attori in carne ed ossa su un set fatto interamente di green screen e ricreando la città e i suoi luoghi grazie al computer. E tanto per essere precisi le storie del fumetto portate sul grande schermo sono quella del primo albo, "The Hard Goodbye" (in Italia pubblicato semplicemente col titolo "Sin City"), del terzo "Un'abbuffata di morte" e del quarto "Quel bastardo giallo".
Portare al cinema abbiamo detto. Il film di Rodriguez fa esattamente questo: porta, trasporta le tavole di Miller, il suo stile, le sue atmosfere, i suoi dialoghi, i suoi personaggi dalla carta stampata al grande schermo. Non adatta, non traduce, non traspone: sposta. Cambia il medium senza cambiare il messaggio né tanto meno il suo contenuto, con buona pace di McLuhan. Con Sin City Rodriguez va quindi oltre quanto fatto da registi come Sam Raimi nei due Spider-Man o Ang Lee nel suo sottovalutato Hulk, pur facendo tesoro della loro esperienza: del primo riprende l'aderenza tra lo spirito e le caratteristiche del racconto a fumetti e quello del film, dal secondo la volontà del tradurre in linguaggio audiovisivo quello delle tavole di un comic. L'operazione del film, se da un lato denota un rispetto incredibile per l'originale stabilendo una nuova, pesantissima pietra di paragone per i rapporti tra cinema e fumetto, dall'altro si rivela anche coraggiosa. Così facendo infatti il regista texano ha lasciato il fianco scoperto alla più facile delle critiche, quella di non aver fatto il minimo sforzo per cinematizzare l'opera di Miller. Una critica alla quale intelligentemente Rodriguez si è esposto senza paura, forte della convinzione che nulla dell'opera di partenza poteva essere migliorato o reso più "adatto" per il grande schermo. Opera già cinematografica di per sé, con il suo evocare, esaltare e estremizzare l'estetica e l'ideologia del noir hollywoodiano, con il suo utilizzare le bicromie del bianco e nero in maniera molto simile a quella degli espressionisti sovietici ma soprattutto tedeschi, la graphic novel "Sin City" trova una collocazione più che naturale sul grande schermo, e ogni possibile variazione di Rodriguez rispetto all'originale sarebbe stata superflua, criticabile e perfino dannosa.
L'uso delle tecnologie digitali in Sin City conferma poi come Rodriguez ne sia uno dei più attenti e sensibili interpreti nel panorama cinematografico contemporaneo. Le scenografie, l'intera Sin City ricreata digitalmente (con una splendida fotografia) hanno un valore che va oltre il mero fatto tecnologico legato alla realizzazione di un intero film grazie al green screen, ma si va ad inserire nell'ottica della traduzione filologica dell'opera di Miller, in quella dell'aderenza e somiglianza tra due medium. Nel suo essere virtuale, digitalmente disegnata, la Sin City cinematografica è infatti ancora più vicina come essenza e filosofia a quella disegnata con matite e chine; in questo modo l'impalpabilità e l'illusorietà del virtuale cinematografico si sposano con quelle del fumetto.
In questo scenario si muovono poi gli attori che con inquietante mimetismo danno vita ai personaggi delle storie; e ancora una volta il regista del film dà prova di grande lucidità, scegliendo di non virtualizzare i suoi protagonisti, come invece fatto da molti altri pionieri del digitale come George Lucas o Robert Zemeckis, affidandosi al ben più tradizionale trucco in caso di necessità (vedi i casi di Marv o del Bastardo Giallo). I protagonisti di Sin City, con il loro debordante carico di umanità, non avrebbero potuto essere nemmeno parzialmente virtuali, gli attori che lo andavano ad interpretare non potevano ridursi a grucce in carne ed ossa per abiti digitalizzati come accaduto ad esempio nel Polar Express del già citato Zemeckis. Rodriguez ha capito quindi sia le potenzialità del digitale che i suoi migliori campi di utilizzo, senza mai dimenticare la centralità dell'elemento umano nell'atto attoriale.
Sin City è un film affascinante, avvincente e convincente per la sua forma e per il suo contenuto; ma è anche una delle migliori opere che dimostrano e svelavano nuove e enormi potenzialità offerte dall'ibridazione cinema-fumetto e alle loro reciproche influenze. Un'opera che nel suo forte ma mai eccessivo utilizzo delle tecnologie digitali è un ottimo esempio, quasi sperimentale, delle prospettive e delle possibilità del cinema del futuro.