Due donne si tengono per mano, mentre camminano a fatica. È una fredda giornata invernale e sotto i loro piedi c'è la fredda e vischiosa fanghiglia della Brianza. Le due signore non si conoscono, ma una aiuta l'altra in maniera istintiva, con una naturalezza e una confidenza tali da sorprendere qualcuno che sta guardando tutto questo da lontano. L'osservatore è Paolo Virzì, il set è quello de Il capitale umano, le due donne mano nella mano sono Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi. Il regista livornese viene catturato da questa immagine poetica, vittima e preda di un'epifania ispiratrice, con quel gesto talmente forte nella sua semplicità da ispirare un film intero.
La pazza gioia parte da qui, da un attimo di empatia spontanea, da un piccolo atto di complicità femminile alla base di un'opera fatta di sorrisi improvvisi e lacrime impetuose, di fughe e ritorni, di dolore e di desideri palpitanti. Passando da un rigido inverno brianzolo ad una calda estate toscana, Paolo Virzì spalanca le finestre di una villa affollata, teatro tumultuoso di una comunità terapeutica abitata da donne con problemi psichici. Da questi varchi, aperti contro l'afa opprimente di un mondo allergico alla stranezza, entrano aria fresca e desideri; da qui possiamo sbirciare nelle vite di Donatella e Beatrice. Due persone ferite ma ritenute pericolose, per sé e per gli altri. Due donne sfortunate e dalla vita ingrata, colpevoli di un'ultima follia: voler vivere.
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Tutti i pazzi giorni
Dopo la lussuosa residenza Bernaschi vista ne Il capitale umano, Virzì ritorna ad isolare le sue storie dentro microcosmi solo in apparenza staccati dal resto del mondo. Perché La pazza gioia non vuole rinchiudersi tra le mura del manifesto cinematografico sulla malattia mentale, ma mischiarsi con la vita, con l'esperienza, e lo fa adagiandosi dalla prima all'ultima scena sulle spalle fragili di due protagoniste rese subito amabili, nelle loro contraddizioni, nel loro essere realisticamente imperfette, buffe nonostante la sofferenza portata addosso. Beatrice e Donatella, proprio come i due straordinari amanti di Tutti i santi giorni, sono personaggi agli antipodi: la prima (Valeria Bruni Tedeschi) è tracotante, nel vestire come nel parlare, nobile caduta in disgrazia ma testarda nel mostrare con orgoglio il suo passato glorioso; la seconda (Micaela Ramazzotti) è rinsecchita, silenziosa, chiusa in un guscio difficile da scardinare.
Per tutti, ma non per Donatella. Ha così inizio un viaggio, impetuoso come tutte le cose impreviste, nato sulle ali di un entusiasmo quasi infantile e poi vissuto sempre più a bassa quota, verso amare ma necessarie consapevolezze. Per una volta la fuga non sarà verso l'ignoto, verso un futuro eccitante perché sconosciuto, ma quasi un inconscio bisogno di tornare alle origini, alle radici di traumi e sfortune personali. Per riscoprirsi amiche e poi di nuovo donne, mogli, mamme, o più semplicemente persone. Ancora una volta.
Come si sta carini da normali
Il trailer de La pazza gioia può ingannare qualcuno, e forse spaventare. Perché, va detto, il cinema italiano si è troppo spesso affidato ad uno stereotipo: quello della donna stralunata, talvolta stressata, smarrita in mondi tutti suoi. Un paradigma ormai stropicciato, caro ad attrici come Margherita Buy e alla stessa Bruni Tedeschi che però Virzì scansa abilmente, concedendo subito al pubblico uno sguardo empatico sulle sue protagoniste, il cui vissuto delinea parabole personali che hanno conosciuto la bellezza e poi la disgrazia, il massimo della gioia e l'oblio di una presunta pazzia. Il regista, però, risparmia a Donatella e Beatrice una visione convenzionale, niente in loro sa di già visto e sentito (citazione di Thelma & Louise a parte); lo fa con il suo tono preferito, sospeso tra risate e lacrime, il guizzo curioso dell'innocenza e l'amarezza di una realtà desolante. In mezzo ad una bufera di emozioni in contrasto, queste due donne si aggrappano l'una all'altra, assieme sognano e si rendono conto, sempre con la testa tra le nuvole e con i piedi per terra.
La follia: cosa bella
Basta una locandina a raccontarci la forza dolce di un'opera bellissima, toccante nel parlarci di vite spezzate ma senza rassegnazione. Ecco Donatella e Beatrice rannicchiate su un muretto in posizione fetale, pronte a rinascere insieme. Da una sola immagine emerge poi il contrasto tra le loro espressioni serene e le caviglie sottili, i polsi slogati, le occhiaie, una fragilità che trova forza in quell'incontro. Ecco, questo è il quadro perfetto per un film che si riconosce nei caratteri traballanti delle sue protagoniste. La pazza gioia ad un certo punto sembra perdersi volutamente, la sua storia si disperde in linee narrative a volte incomplete e accennate. Virzì vive di sussulti come loro, di epifanie, di sprazzi umorali, per poi chiudere il cerchio di questa avventura agrodolce con una scena che rimarrà nel nostro cinema.
E, forse, rimarranno anche Donatella e Beatrice, eroine normali in un mondo agrodolce, capaci di scrivere a quattro mani un inno di libertà attraverso la sofferenza, per poi urlare di gioia e gridare per il dolore. E allora cos'è questa "pazza gioia"? Probabilmente il desiderio di entrare nelle proprie ferite, non curanti delle difficoltà che comporta. Perché fare finta di niente e farsi trascinare dall'ordinario, a volte, non serve a niente. A volte serve scuotersi, attraverso un atto folle, come guardarsi indietro e dentro. E se la normalità è la regola, Donatella e Beatrice sono due bellissime eccezioni.
Movieplayer.it
4.0/5