Tre anni dopo il successo di Casomai, torna al cinema il fortunato binomio Alessandro D'Alatri - Fabio Volo, regista e attore che si confermano tra i più interessanti del panorama italiano. La febbre, prodotto da Rai Cinema e Rodeo Drive, è un film coraggioso sulla normalità oggi in Italia, con tutte le implicazioni negative che questo sottintende, ma è anche la storia di un amore che ammala e apre le porte alla felicità. Regista amante del rischio, D'Alatri presenta oggi il suo film, distribuito in 240 copie, accompagnato dagli attori Fabio Volo e Valeria Solarino. Ospiti i Negramaro, tra gli autori della colonna sonora, che al termine della conferenza stampa salutano i giornalisti con una versione acustica di Mentre tutto scorre.
Può considerarsi La febbre il suo film più lavorato dal punto di vista tecnico? Alessandro D'Alatri: Sul piano visivo sicuramente è il mio film più elaborato, anche perché è dopo i quarant'anni che riesci a fare film più elaborati. Quando sei giovane devi fare tutto un percorso di gavetta, i budget sono molto ridotti e chiaramente riesci a lavorare di meno. Oggi il cinema non può più ispirarsi alla realtà todo modo perché questa è affrontata in maniera più concreta dalla televisione e quindi credo che al cinema sia restituita la possibilità di reinterpretare la realtà, diventando così sempre più spettacolo. I ragazzi che hanno curato gli effetti speciali de La Febbre hanno fatto sacrifici enormi, perché non sarebbe stato possibile fare quello che hanno fatto con il budget che avevamo, c'è stato un atto d'amore da parte di tutti coloro che hanno collaborato al film. Sono ragazzi che vengono dal cinema americano, che hanno fatto Batman, The Cell - La cellula, Fight Club, ma sono italiani, uno di Roma, l'altro di Napoli, costretti a lavorare fuori perché qui non ci sono le possibilità. Ben venga allora anche una rinascita del cinema industriale. Quando vedo il cinema d'animazione americano, come Gli incredibili, mi rendo conto che sono film politici, che dicono cose meravigliose. Per fortuna si è rotto quell'anello buonista, edulcorato della Disney e ci sono ora sceneggiature scritte per tutti, non solo per i bambini.
La febbre è in un certo senso un film politico. Come considera il rapporto attuale tra politica e cinema?
Alessandro D'Alatri: Oggi la politica nel cinema è quasi sempre un atto di accusa verso qualcuno. Io, invece, generalmente preferisco chi fa delle cose a favore e quindi l'idea di un atteggiamento propositivo nei confronti della politica è quello che auspico nel cinema, ma anche nella realtà. E' impossibile non fare cinema politico. Casomai era un film ancora più politico perché parlava di problemi reali. La questione vera è che la politica è completamente disinteressata rispetto ai problemi concreti della gente. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a quella cosa meravigliosa che è stato il crollo delle ideologie e credo che questo vada salutato come un miracolo vero che bisogna capire, comprendere e saper anche cavalcare. Le ideologie sono innaturali. C'è una frase di Paolo VI che dice: "è finita l'era dei maestri, inizia l'era dei testimoni". Tutti noi siamo chiamati oggi ad essere testimoni e a riconoscere testimonianze. Io non credo a chi mi dice com'è giusto vivere e poi vive in un altro modo, io voglio vedere davanti a me testimoni per credere. Credo che oggi fare cinema sia dimenticare il proprio ruolo di attore, regista, produttore, e ritornare ad essere cittadini, rimboccarsi le maniche, sporcarsi le mani con la realtà, prendersi il disturbo di vivere, che poi disturbo non è. Il vero atto di coraggio dovrebbe essere questo: cominciare la rivoluzione dal pianerottolo, essere testimoni di quello che si fa e che si dice. C'è questa febbre che ci limita, ci debilita, è un crollo leggero delle difese immunitarie che non ti fa essere al 100%. Purtroppo non ascoltiamo più i poeti che sono persone che non fanno sprechi di parole: se li ascoltassimo di più la nostra società sarebbe migliore.
E' vero che in Italia non si possono fare buoni film perché non ci sono bravi attori? Alessandro D'Alatri: In Italia non mancano i bravi attori, i talenti ci sono, ma molto spesso manca il coraggio di utilizzarli. In questo film ci sono degli esordienti straordinari, sia giovani che ultrasessantenni. Il problema è l'assenza di coraggio, i talenti ci sono a tutti i livelli, bisogna saperli scegliere, mettersi in gioco e rischiare. Se uno non rischia un errore, non può neppure fare una cosa buona.
Cosa bisognerebbe fare secondo lei perché il cinema italiano esca dalla crisi nella quale versa da molti anni? Alessandro D'Alatri: L'industria cinematografica italiana è diventata un'industria di Stato e questo per colpa del comunismo. Io voglio dallo Stato leggi per poter giocare liberamente in un paese democratico, per poter andare in una banca e prendere un finanziamento, per avere una defiscalizzazione se un imprenditore vuole investire in un mio film, voglio una riforma che dia libertà agli imprenditori di fare cinema, di fare arte. La dittatura di un paese comunista in un paese democratico non la voglio. Il comunismo dice che siamo tutti uguali: non è vero! Ci sono dei valori, dei talenti e bisogna dar loro la possibilità di esprimersi. Spielberg ha fatto il suo primo film, Duel, con i soldi dell'associazione dei dentisti americani. Così si fa il cinema in tutto il mondo. Quando in Italia c'erano i veri imprenditori, come De Laurentis, si faceva del grande cinema perché era gente che si metteva le mani in tasca, credeva in una cosa e la faceva, ma ormai se ne sono andati tutti in America. Oggi i produttori fanno cinema senza rischiare, ma bisognerebbe rendersi conto che non può esistere una competizione senza rischio e non si può crescere senza osare. Facciamo cinema solo per il mercato nazionale, non per esportarlo nel mondo, per entrare nella competizione. Io corro con le macchine per divertimento, ma quando entro in pista guido per vincere. Bisognerebbe fare un salto in avanti, al di là delle ideologie, per vivere meglio.
Quanto è difficile realizzare i propri sogni oggi?
Alessandro D'Alatri: Oggi poter realizzare un sogno significa passare attraverso una serie di forche caudine. Viviamo una realtà del dopo: adesso sto male, però dopo... ma dopo quando? E' la logica di Faoni, il vecchio collega di Mario che vive aspettando di andare in pensione per realizzare i suoi sogni. Siamo stati crudeli io e gli sceneggiatori a scrivere la scena in cui Faoni muore il giorno dopo essere andato in pensione, ma è così, non c'è dopo, c'è l'adesso e c'è un dietro, un da dove veniamo e un dove vogliamo andare. Purtroppo viviamo solo un adesso pressato, c'è la dittatura dell'ora, abbiamo perso completamente il rapporto con la memoria, siamo travolti dall'oblio e non abbiamo prospettive rispetto al futuro. Questa condanna dell'adesso non va bene, viviamo attraverso un sogno che dovrà venire e non si sa quando. Credo che restituire la dignità al lavoro sarebbe un atto dovuto, un atto di rispetto. In Italia trattiamo sempre il lavoro solo in chiave sindacale, ma non ho mai visto un'ora di sciopero per la qualità del lavoro. Bisognerebbe tornare ad essere tutti quanti imprenditori di se stessi. L'idea di Mario Bettini che si licenzia non è una sconfitta per lui perché capisce che ha delle capacità, delle possibilità e può sfruttarle molto meglio.
Come le è venuta l'idea di inserire la figura del Presidente della Repubblica, interpretato qui da Arnoldo Foà, nel suo film? Alessandro D'Alatri: Il Presidente Ciampi è stato un po' l'artefice di questo film, perché quando tre anni fa sono andato al Quirinale, per il tradizionale incontro con i candidati ai David di Donatello, fece un discorso bellissimo a chi lavora con la fantasia, a chi fa cinema, sull'orgoglio e sulla voglia di rimettersi in gioco di questo paese. Io stavo già lavorando a questo progetto e rimasi così colpito dalle sue parole che tornai a casa per sviluppare questo concetto. Il Presidente è stato perciò un po' un co-sceneggiatore inconsapevole del film.
Fabio Volo, chi è per lei Mario Bettini, il personaggio che lei interpreta ne La Febbre? Fabio Volo: Quando ho letto la sceneggiatura mi sono reso conto che raccontava un po' la storia non solo mia, ma anche quella dei miei amici di Brescia, una città di provincia come la Cremona del film. Mario è semplicemente uno che a un certo punto prende il coraggio di non piacere. Credo che intorno a noi ci sia sempre qualcuno, siano essi i genitori o i colleghi di lavoro, che ci vogliono in un certo modo e tu per il semplice desiderio di farti accettare e di essere amato assecondi le loro richieste. Chi asseconda queste cose per farsi accettare poi si trova ad un certo punto che non sta vivendo la propria vita e diventa spettatore di quella degli altri. Per essere accettati dagli altri bisognerebbe avere il coraggio di essere se stessi; così da diventare delle persone centrali e quindi felici. La felicità personale credo che arrivi prima di quella degli altri.
Sono passati tre anni da Casomai. Che sensazione è stata ritornare sul set? Fabio Volo: Questo è un lavoro molto affascinante e io farei un film al giorno se potessi. E' bello come si crei una sorta di famiglia: i primi giorni non conosci nessuno, dopo due settimane conosci tutti, dopo quattro li vorresti uccidere perché non li sopporti più, ognuno con i suoi tempi, con i suoi pensieri. Da una parte sono contento di aver fatto questo film, dall'altra mi dispiace perché significa che c'è grande crisi nel cinema italiano!
Valeria Solarino, come si è rapportata al suo personaggio? Valeria Solarino: All'inizio non riuscivo a collocarlo bene né rispetto agli altri personaggi, né rispetto alla mia vita, alla mia esperienza. Lei vive in modo diretto, senza compromessi, che è un po' quello che andrà a fare Mario dopo essersi licenziato e quello che dovremmo fare un po' tutti: vivere secondo i nostri sogni, fare in modo che non restino delle utopie.
Qual è la vostra febbre? Alessandro D'Alatri: La famiglia, il cinema, le macchine da corsa, la vita in generale.
Valeria Solarino: La mia febbre è il cinema, il mio lavoro.
Fabio Volo: La vita e quello che c'è fuori... l'essere umano e le sue opere... Ok, le donne, dai!
Giuliano Sangiorgi (Negramaro): La nostra febbre è la passione con la quale tutte queste grandi persone hanno lavorato al film. La nostra febbre è il fatto di lavorare con passione, di essere felici per quello che si fa, come ha fatto Alessandro realizzando questo film, scegliendo artisti "sconosciuti" come noi, con quella passione che l'ha sempre caratterizzato.