Torna maggio e Roma si sbrina, si riscalda. Si accende. Colorandosi di ocra e di verde. La luce, che arriva da ovest, spingendosi fino ad est, oltre le borgate ormai gentrificate, taglia per orizzontale il panorama, come se fosse un'abbagliante lastra invisibile. Una luce mistica, unica, millenaria. La stessa luce traslata da Luca Bigazzi in quello che, a dieci anni dalla trionfale uscita, è ancora uno dei punti massimi (e irraggiungibili?) del cinema italiano. Perché, più dell'Oscar, più della "sensibilità", più di una sorniona Via Veneto, viziosa e notturna, La grande bellezza di Paolo Sorrentino riassume l'eternità di Roma, sospesa e immobile com'è immobile il Tevere sfumato di rosa, all'alba, intanto che i gabbiani cominciano ad intonare un'incessante e confortevole nenia.
Gli stessi gabbiani scelti da Sorrentino per quella magistrale chiusura, osservandoli direttamente dal Tevere, e scegliendo le note leggere di The Beatitudes di Vladimir Martynov, suonato dal Kronos Quartet, per cullare le immagini di Roma vista dal basso, scorgendone i fregi, le fronde degli alberi, i turisti affacciati da Ponte Sisto. Un finale che sarà idealmente l'inizio, la consapevolezza ritrova di un uomo lirico e decadente, emotivo e moderno. Mimetizzato nei suo abiti sartoriali (i costumi sono di Daniela Ciancio), sgargianti e stirati, a camuffare i rimpianti che spezzano il cuore. Jep Gambardella, tra Charles Baudelaire, Flaubert e Marcel Proust. Jep Gambardella, da Napoli a Roma, "il Re dei Mondani" che voleva avere il potere di far fallire le feste.
Opulenza e romanità
Insomma, l'egocentrismo romano, il romanticismo illuso, l'opulenza al servizio della poesia: Toni Servillo si veste da Jep Gambardella e, grazie alla sceneggiatura di Sorrentino, firmata insieme a Umberto Contarello, diventa in qualche modo il capolavoro nel capolavoro, folgorante nella sua filosofia schietta, inimitabile e barocca. "Un apparato umano" e un apparato cinematografico, la sovrapposizione tra il racconto e la tracotante realtà; uno dei migliori personaggi del cinema italiano, al pari di Marcello Rubini de La dolce vita (a cui Sorrentino si è ispirato per la cornice, marcando invece Otto e mezzo per la spiritualità artistica) o del Bruno Cortona de Il Sorpasso. Semplicemente, e rivisto dopo dieci anni, La grande bellezza è davvero un film irripetibile. Pezzo per pezzo, personaggio per personaggio.
Un momento miliare, la definitiva maturazione di Paolo Sorrentino, tra l'estasi e l'estetica di quella narrazione enfatizzata proprio dalle immagini, e mai svilita dalla liricità del suo metro registico. Cinema potente, potentissimo. L'estetizzazione in funzione della scrittura, da sempre punto focale dell'autore, erroneamente scambiata per auto-compiacenza, e illeggibile da quel pubblico (e da quella critica) miope difronte alla meraviglia. Più su, sfiorando la perfezione intellettuale, utopica nel percorso umano di un uomo innamorato, e dolente nei suoi sentimenti più sensibili. Come Roma, come il tempo che non sembra scalfirla. Semmai, rendendola ancora più preziosa, delicata nel suo ecosistema inquieto e appariscente, tuttavia capace di regalare sprazzi di dolorosa bellezza.
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"Solo un trucco"
Allora, l'opera di Sorrentino, non è solo un omaggio alla Capitale, diviene la sua trasmigrazione: dimenticando tutto il clamore, dimenticando l'Oscar come miglior film straniero, dimenticando i fenicotteri e dimenticando le terrazze e i trenini più belli che "non vanno da nessuna parte", rivedete oggi La grande bellezza dopo aver passeggiato nel centro di Roma, o viceversa. Sentirete l'odore immortale, alzerete gli occhi verso i gabbiani, che ballano scoordinati, poggiandosi sulle teste marmoree dei santi e dei poeti. Proverete a toccare la luce, che si insinua tra le mura sgrugnate. L'identica luce che cerca Jep, chiudendo gli occhi perché tanto "è solo un trucco". Sentirete il peso della malinconia, stretta da un tempo che sfugge e che corre, lasciando sempre meno spazio al futuro. In questo caso la figura di Carlo Verdone, illuso e disilluso, è la metafora della Roma più contemporanea, forse meno cinica: cosa ci può essere di migliore, domani, se oggi c'è già tutto questo. "Che cosa avete contro la nostalgia, eh? È l'unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro, l'unico", dirà, prima che Sorrentino lo faccia uscire simbolicamente di scena.
Del resto, La grande bellezza è un film universale. Di nuovo: universale come Roma. Città complessa e fulcro di narrazioni che si incrociano, tra presente e passato. Lo stesso accavallamento che Sorrentino delineerà tenendo presente l'apparenza e la sostanza, vestendo di arte le maschere vuote di una società ossessionata dalla "vocazione civile". La stessa vocazione consumata però "nei bagni dell'università", e poi sgretolata sacrificandola in nome del piacere effimero e residuale. Come il piacere filmico, in questo caso sensorio: "Il piacere non nasce più dall'appagamento totale della persona ma può soddisfare gli occhi e l'udito in modo scisso. Un esempio? In molti hanno visto due volte _La grande bellezza e credo di sapere perché: una volta l'hanno visto e una seconda l'hanno sentito"_, dirà proprio lo sceneggiatore Umberto Contarello, spiegando la biforcazione stipulata da Sorrentino.
Quindi, se ogni inclinazione regala increspature diverse, ciò accade anche con il cinema. Arte malleabile, impermeabile al tempo. Il tempo protagonista del film, il tempo nemico (o alleato?) della bellezza. Il tempo che affligge e ossessiona Jep, esagerato e pindarico, aggrappato ad un ricordo sfocato di un volto che non può lasciare andar via. Cosa gli resta? Ciò che Paolo Sorrentino rende "sparuta e incostante bellezza". Perché sotto il rumore e il chiacchiericcio altre non c'è se non "il silenzio e il sentimento, l'emozione e la paura". Prima di finire oltre l'altrove, oltre la morte. All'ombra perenne di una Roma struccata a festa.