La 'dolce vita' nella Mafia
Già nelle intenzioni di Martin Scorsese Quei bravi ragazzi non è un semplice film sulla mafia, bensì un film sulla realtà della mafia. E la precisazione non è irrilevante. Il regista italo-americano spoglia la storia di tutta la retorica ereditata da tante pellicole di genere entrate di diritto nell'olimpo dell'iconografia cinematografica. Ciò che interessa a Scorsese è l'analisi dei comportamenti quotidiani di un gangster qualsiasi e del peso esistenziale che grava sulla sua condizione di affiliato. Quei bravi ragazzi è basato sul libro Wiseguy scritto da Nicholas Pileggi, un ex reporter di cronaca nera dell'Associated Press che con il suo bestseller ha raccolto le memorie di Henry Hill, un mafioso pentito costretto a vivere sotto copertura.
Ne esce fuori un film quasi documentaristico, con uno stile secco che non concede troppe scappatoie spettacolari (anzi, l'impiego del fermo immagine a conclusione delle scene congela il ritmo della narrazione in singoli fotogrammi che così assumono valenze univoche) e naturalmente lontano dall'approccio scelto da altri registi come Francis Ford Coppola o Brian De Palma.
La regia di Scorsese è come al solito combattuta tra l'eccesso e l'equilibrio. In questo caso comunque il controllo sui facili stimoli emotivi è notevole. I carrelli nelle scene in interni legano repentinamente i personaggi tra loro annullando le distanze. La brutalità viene esposta con tocco iperrealistico. Le luci sembrano più artificiali di quelle che già in realtà sono, ma senza l'eccessivo livello di saturazione "barocca" ottenuta da De Palma.
Significativamente Scorsese, per accelerare il ritmo degli eventi, colloca la scena clou proprio ad inizio film, per poi riproporla concentrata verso la metà della pellicola, come ad indicare un nuovo avvio o come a dare spazio all'inizio del declino dei protagonisti (e il rosso accecante che compare nella sequenza della sepoltura è un segnale indefettibile del valicare un limite insormontabile). Questo favorisce un effetto di straniamento, ottenuto grazie anche alla voce off che continua a dar vita ai ricordi. Ed è proprio la voce fuori campo che sin dalla sequenza d'apertura fa sobbalzare le immagini, con un senso di continuità inesorabile tra sparatorie, punizioni, riti conviviali (con tanto di risate di gruppo, forzate e vuote, come quella morte che i goodfellas centellinano in modo inevitabile e scontato) e la mitizzazione, tipicamente italiana, del cibo.
Ne risulta una realtà che, come è tipico dell'opera di Scorsese, è un mondo chiuso, un mondo a sé, e contro il quale i fattori esterni nulla possono, se non penetrarlo per rimanerne infimamente soggiogati fino all'immolazione conclusiva. La nevrosi è un dato caratteristico di questo universo, un filo tagliente con il quale i protagonisti giocano in modo naturale ma più consapevole rispetto, ad esempio, al nichilismo di un'altro film scorsesiano come Mean Streets: sono gli avvenimenti, sono le cose che vanno storte e che violano il codice della "famiglia" a far cortocircuitare gli atteggiamenti consueti. E' il tradimento di Henry a creare l'isterica e patetica scenata della moglie (traspare anche in Quei bravi ragazzi una velata misoginia di Scorsese). Sono i futili motivi a portare Tommy alla deriva. E' la ieratica e finta tranquillità di Paul a celarne la spietatezza. E', infine, lo stato confusionario indotto dalle droghe a non far capire ad Henry il significato di quell'elicottero che volteggia nel cielo (in una situazione ambigua che riporta spontaneamente a galla nella memoria spettatoriale le allucinazioni di Apocalypse now).
Per Scorsese quello della mafia è, insomma, un mondo dorato che richiede però una dedizione totale. Non c'è compiacimento in Quei bravi ragazzi, ma soltanto una lucida e realistica disamina di un sogno di gloria e della sua trasformazione in un infame incubo: come quello della piatta convenzionalità in cui è scivolata la vita di Henry dopo il tracollo finale.