Il potere dell'empatia, il potere della semplicità come aggancio narrativo, parlando di quel cosmo (il nostro, di chi vive di lotte quotidiane, ben lontano dalla borghesia e dagli appartamenti in centro) che, spesso, il cinema italiano sembra aver dimenticato. Luca Zingaretti sceglie un romanzo di Daniele Mencarelli per il suo esordio alla regia: La casa degli sguardi. Un film che si rifà ad un certo immaginario degli anni Cinquanta e Sessanta, tra Sergio Citti e Pietro Germi, raccontando la storia di Marco, poeta in erba, interpretato da Gianmarco Franchini, e della sua accettazione del dolore: rimasto con suo padre dopo la morte della mamma annega il trauma nell'alcol. Dopo un incidente proverà a rimboccarsi le maniche come addetto alle pulizie all'ospedale Bambin Gesù di Roma.
La casa degli sguardi: Luca Zingaretti racconta il film

C'è una riconoscibilità tale ne La casa degli sguardi spiegata dallo stesso Zingaretti, "Il film racconta della nostra capacità nel rimetterci in piedi. Quando cadi, in fondo, c'è sempre una luce. Un'esperienza così l'abbiamo vissuta tutti". Per il suo debutto alla regia, l'attore ("Volevo esordire da dieci anni, dopo aver proprio Mencarelli", dice) sceglie un comparto tecnico di assoluto livello: la fotografia è di Maurizio Calvesi, la scenografia di Giada Esposito e le musiche di Michele Braga.
Quello di Zingaretti, come detto, è un cinema dolce, capace di esaltare l'ordinarietà sotto forma di storytelling. A scrivere il film, oltre a Zingaretti, anche Gloira Malatesta e Stefano Rulli. "Ne La casa degli sguardi interpreto un papà che si alza la mattina, che va a lavorare, un uomo semplice della classe operaia. Ci prova, prova ad andare avanti, e dimostra di esserci sempre per suo figlio".
L'importanza del dolore

Essenzialmente, La casa degli sguardi, come scrive Zingaretti nelle note di regia, è "un film sulla vita, dove c'è sempre un motivo per resistere, sulla speranza e sulla capacità dell'uomo di risorgere". Un tratto narrativo compiuto, raccolto in piccoli dettagli - appunto, gli sguardi che danno il titolo al film - e sorretto da una certa poesia, quasi salvifica, e certamente di forte impatto cinematografico. Sotto, la fatidica domanda: l'empatia è un privilegio o una condanna? È lo stesso processo che affronta il personaggio di Marco, culminando nell'alba romana di un nuovo giorno.
Un nuovo giorno che, per Zingaretti, equivale ad una nuova opportunità: "Senza empatia quante occasioni perdi? Alcune occasioni, una volta andate, sono andate per sempre. Ed è un peccato", spiega il regista, "Essere o non essere empatici mette sul piano una vecchia questione mai risolta: è più bello percepire i battiti delle ali di una farfalla, e goderne, oppure non sentire nulla, essere ottusi, e condurre una vita più tranquilla ma meno ricca? Avendo scelto questo mestiere credo che la prima opzione sia migliore".

Empatia, che coincide con sensibilità, "È vero che il protagonista del film è squassato da questa sensibilità, tutto gli risuona in modo abnorme. E ha bisogno di un anestetico, l'alcol. Poi ha subito la perdita della madre, è atterrito dal dolore. Sulla scia di ciò che facciamo noi: la nostra società è algofobica, rimuoviamo il dolore. Forse, però, uscirà da questo tunnel quando capirà che il dolore non si può evitare: bisogna accogliere, è dello stesso materiale della vita. E poi il dolore è catartico, devi stare lì a soffrire, ma poi ti permette di andare avanti".