Coprodotto da Italia, Francia, Belgio e Giappone, L'enfer è il secondo capitolo, dopo quello diretto da Tom Tykwer nel 2002, della trilogia scritta da Krzysztof Kieslowski su Inferno, Paradiso e Purgatorio. A dirigerlo il bosniaco Danis Tanovic, già regista di No man's land, vincitore di Golden Globe e Oscar come miglior film straniero nel 2002, e di uno degli undici segmenti del collettivo 11 settembre 2001. Tanovic, a Roma per presentare il film, racconta il suo approccio con l'eredità del maestro polacco e dice la sua su cosa sia l'inferno oggi.
Il suo film è tratto dalla trilogia di sceneggiature scritte di Kieslowski e Piesiewicz su Inferno, Paradiso e Purgatorio. Ha girato il film avendo in mente Kieslowski?
Quando ho scelto di dirigere questa storia esisteva soltanto una sceneggiatura di sessanta pagine e quindi abbiamo dovuto aggiungere molto di nostro, ma dentro di essa ci sono molte cose di Kieslowski. Non mi sono mai posto il problema se dovessi stare attento o meno ad imitare il suo stile di regia, perché non mi sono mai sentito alla sua altezza e se anche ci avessi provato in molti avrebbero parlato di sacrilegio. Io ho il mio mondo e il mio modo di lavorare e ho cercato di fare qualcosa di diverso, di personale, cercando la bellezza in ogni scena.
Lei ha affermato che tra i suoi registi di riferimento ci sono Antonioni, Bergman e lo stesso Kieslowski. Cosa ammira di loro?
Si è vero, sono autori che amo molto, ma mi piacciono anche tanti altri registi. Il fatto è che quando ho studiato cinematografia non c'erano molti mezzi, quindi guardavamo moltissimi film e passavamo la maggior parte del tempo ad analizzarli. Mi sento vicino a questi registi, quindi, perché ho visto i loro film spesso, ma a questi se ne potrebbero aggiungere tanti altri, come ad esempio quelli del Neorealismo, da De Sica a Fellini.
Prima di scegliere la sceneggiatura sull'Inferno, per qualche tempo ha pensato di dirigere quella relativa al Purgatorio. Cosa le ha fatto cambiare idea?
Il Purgatorio è una sceneggiatura che gira attorno al tema della guerra, ma quando l'ho letta stavo girando No man's land, proprio un film sulla guerra. E' dal 92 che la guerra, parlo di quella dei Balcani che ho vissuto in prima persona, mi ha stancato e, quindi, non avevo intenzione di tornare ancora una volta sullo stesso argomento con il mio nuovo film. Nel frattempo mi sono sposato, sono diventato padre, e avevo voglia di parlare d'altro, di mettere per un po' da parte la guerra.
Così ha scelto l'Inferno. Cosa ne pensa lei dell'inferno?
L'inferno ha tante facce. Io non sono religioso e perciò non credo ci sia un inferno o un paradiso dopo la morte. Per me questi sono qui, adesso. Ho avuto momenti straordinari nella mia vita ed altri molto tristi. L'unica verità è che non ci sono verità. Per realizzare che siamo già in paradiso forse dobbiamo prima capire che siamo passati attraverso l'inferno per giungervi. Il mio paradiso è nel letto di casa mia, con mia moglie, e il nostro bambino di un anno che saltella e ci fa le coccole. Ci sono anche tanti inferni intorno a noi, che non riusciamo a risolvere, ma ognuno reagisce a quello che gli capita in maniera diversa. Per esempio, durante la guerra ci sono stati momenti in cui ero felicissimo, e altri, quando sono andato via, al sicuro in un altro paese, stavo malissimo perché pensavo alla mia famiglia che era rimasta lì. Credo non ci sia nulla di peggio della guerra: vedi i tuoi familiari morire, i tuoi amici sparire, i luoghi in cui sei nato e cresciuto distrutti.
Nel film uno dei personaggi afferma: "Oggi non esistono più tragedie, solo grandi drammi". Cosa vuol dire?
La tragedia greca esisteva finché vivevamo in una società religiosa. All'epoca degli antichi greci credevamo nelle divinità e che queste potessero intervenire nella nostra vita. Oggi viviamo in una società in cui non si crede più a Dio, all'intervento divino. Nella tragedia c'è un'interferenza del divino nella vita di tutti i giorni e quindi oggi non si può più parlare di tragedia. A proposito di religione, penso che oggi questa sia troppa politica e poca spiritualità, quando secondo me dovrebbe essere il contrario. Dopo la guerra qualcosa si è rotto e per me le porte della fede si sono chiuse, ma provo invidia verso coloro che credono ancora. Mia madre è molto religiosa, mio padre è socialista e crede in Marx, quindi potete capire in che tipo di famiglia sono cresciuto.
Il suo film è disseminato di metafore. Non teme che il pubblico non saprà coglierle a pieno?
Quando dirigo un film non penso alle metafore, ma preferisco che ogni scena venga vista semplicemente per quella che è. A me interessa che la gente colga, prima di tutto, quello che c'è in superficie, poi ognuno interpreta quello che vede in modo diverso. Ci sono persone che hanno trovato questo film deprimente, altre che lo hanno trovato molto ottimista. Ecco, io non voglio imporre il mio punto di vista, ma limitarmi a raccontare una storia, magari lasciando il finale aperto, come è accaduto sia per il mio primo film, No man's land, che per L'enfer. L'unica cosa che mi interessa è comunicare dei sentimenti.
I personaggi del film hanno un'ansia continua di confessare la verità, anche se questo significa distruggere le vite altrui. Lei pensa che nella vita vada sempre detta la verità?
Per alcuni bisogna sempre dire la verità, per altri no, dipende dalle persone e dalle circostanze. Più che un film sulle verità, definirei il mio un film sulla mancanza di risposte. Come nella vita, sono molte le domande, infatti, che restano senza risposte, ma credo che sia molto importante continuare a porsele, significa che siamo vivi.
L'Enfer è ambientato in Francia. Com'è stato girare in una città come Parigi?
E' stata un'esperienza fantastica, avevo tutto quello di cui avevo bisogno, tranne il tempo. E' stato molto bello girare nella città dove ormai vivo da anni. Durante il giorno andavo sul set a girare e la sera tornavo a casa, un po' come succedeva a Fellini che usciva di casa e andava a Cinecittà a girare, come se si recasse in ufficio.