Presentato alla stampa September Tapes, primo film non afgano girato in Afghanistan dopo l'11 settembre. Un film a cavallo tra il documentario e la fiction e le cui riprese sono in parte state sequestrate dal Dipartimento della Difesa statunitense. L'interessante intervista con il regista Christian Johnston, ci ha permesso di fare un po' di chiarezza su un film che farà discutere molto.
Per cominciare, dov'è la finzione e dov'è la realtà nel suo film? Christian Johnston: Questa suddivisione è molto chiara sul DVD di prossima uscita, che conterrà maggiori informazioni ed un lungo approfondimento. La fiction è comunque, decisamente l'elemento meno presente nel mio film. L'obiettivo di partenza era di fare un documentario puro, ma di fronte ad insormontabili difficoltà nel riprendere alcune situazioni sono stato costretto a doverle ricreare. Ciò non toglie che la quasi totalità dei personaggi sia reale, che nessuna intervista seguisse un copione e che i proiettili che si vedono nel film sono reali. Tutto è stato adattato alla realtà, anche la storia cambiava flessibilmente rispetto a ciò che giravamo e le sparatorie sono tutte reali, anche se su queste potevamo esercitare un certo controllo. In ogni caso il realismo è decisamente l'elemento propulsivo del film.
Ci dice qualcosa di più sui problemi avuti con il Governo americano?
Semplicemente il Dipartimento della Difesa, al nostro rientro sul suolo americano, ha sequestrato il girato per ragioni di sicurezza. Il controllo sul contenuto è avvenuto per ragioni essenzialmente di Difesa, in quanto non c'erano rappresentanti istituzionali all'interno della nostra troupe ed alcune delle persone da noi filmate (i rappresentanti dell'Alleanza del Nord per esempio) sono sotto processo, quindi le nostre riprese forniscono importanti informazioni. A questo proposito abbiamo dovuto eliminare alcune frasi dette da questi uomini perchè avrebbero potuto creare difficoltà alle strategie militari americane. In altre occasioni ce la siamo cavata con sfocature o con setting un po' casuali.
Il suo film, per quanto interessante e provocatorio rischia, contaminando la realtà con la finzione, di non fornire un buon servizio alla chiarezza, quando credo sarebbe fondamentale che il mondo della cultura ce la fornisse vista la reticenza dei media e delle istituzioni a dire la verità. Qual è il suo scopo e il perché di questa scelta?
Il problema è che in America, prima di Fahrenheit 9/11, non c'era molto posto per i documentari, specie per quelli indipendenti. Allo stesso tempo le caratteristiche della fiction hollywoodiana non permettono l'approfondimento dei temi più scottanti. Ho optato per questa formula quindi, per fare in modo che la fiction fornisse l'elemento attrattivo verso il pubblico, permettendomi di far riflettere e discutere sul tema della guerra, del terrorismo e sull'ambiguità dell'intervento americano. Tutto il film è fatto per portare le persone a farsi chiedere cosa sia reale e cosa no; è in un certo senso una sfida.
Nel film ci si interroga spesso sulla poca volontà di catturare Bin Laden da parte degli Stati Uniti. Cosa può dirci a proposito?
In effetti, molte voci ultimamente parlano di una vicina cattura di Bin Laden proprio a ridosso delle elezioni, come elemento di gran forza elettorale. Sul piano della realtà comunque, la cosa che colpisce particolarmente, è che solo 25 persone si sono occupate dal 2001 a nove mesi fa (dopo i quali gli sforzi sono stati incrementati) della cattura sua e di tutti gli altri uomini di Al-Quaeda. Questo fa riflettere ed è ciò su cui punto l'attenzione nel film, anche se non sviluppo una precisa angolazione politica. Io intendo solo mostrare l'attuale situazione in Afghanistan, soprattutto il fatto che non è tutto sotto controllo e sicuro come si dice.