Kubi, collo in giapponese. Un titolo significativo per un film in cui le teste cadono con frequenza e semplicità. D'altra parte siamo nel mondo dei samurai a cui Takeshi Kitano torna vent'anni dopo Zatoichi, per una storia tratta da un suo stesso romanzo e ambientata nel 1500. Un film che si dice possa essere l'ultimo del regista nipponico. Speriamo non sia così, perché abbiamo bisogno del grande Beat Takeshi.
La battaglia per il controllo nella trama di Kubi
La storia che Kitano ci racconta in Kubi prende le mosse nell'autunno del 1579 e punta all'incidente del tempio di Honno-ji del 1582, quindi sullo sfondo del Giappone feudale del sedicesimo secolo e gli scontri per il controllo tra i clan samurai dell'epoca per il controllo del paese. In particolare ci si concentra sulla guerra che Oda Nobunaga aveva intrapreso contro molti clan rivali e dalla fuga di Araki Murashige dopo aver messo in piedi una ribellione. Nobunaga chiama a raccolta i suoi vassalli, tra cui Mitsuhide e Hideyoshi, per catturare il fuggitivo, annunciando che avrebbe scelto il più abile tra loro come suo successore, ma il percorso che si trovano ad affrontare è complesso, ricco di ostacoli... e teste rotolanti.
Il cinema di Takeshi Kitano, il clown con la pistola
Il samurai Kitano
Non è nuovo al genere dei samurai Takeshi Kitano e forse è questo il vero limite di Kubi, il non essere qualcosa di nuovo per il regista giapponese. Un ulteriore elemento che rappresenta, o può rappresentare, un freno per l'appetibilità del film è l'essere così strettamente legato a un momento specifico della storia giapponese, quindi di difficile comprensione per il pubblico occidentale che è meno consapevole di quegli eventi e le sue dinamiche.
Aspetti ai quali è molto attento Kitano, che tradisce la passione e cura con cui ci si è dedicato per la stesura del materiale di partenza di cui è autore: nel non voler trascurare o sorvolare nessuno snodo di quella vicenda, rende la comprensione completa della storia più ardua di quanto sarebbe necessario per la natura stessa dell'opera.
L'ironia dark
Kubi è infatti un film che vive anche di eccessi, di violenza e ironia, di situazioni brillanti in cui l'anima più pop del regista emerge con prepotenza ergendosi a protagonista. Sono sprazzi che avrebbero fatto bene al film se inseriti in misura maggiore, ma il loro essere centellinati non rende Kubi meno riuscito nel complesso, solo meno appetibile per un pubblico più ampio e inferiore ad altre opere di un regista che ha già lasciato il segno e continua ad avere qualcosa da dire. Anche quando non è al suo meglio.
Conclusioni
Non è il miglior film di Takeshi Kitano quello di cui vi abbiamo parlato nella recensione di Kubi, ma è comunque un’opera degna di nota per cui torna al mondo dei samurai dopo Zatoichi. Ci sono sangue, violenza e teste che volano, ma il solito piglio eccessivo del regista giapponese è parzialmente frenato da una eccessiva attenzione e cura agli snodi storici della vicenda, che appesantiscono la visione per chi è più a digiuno del contesto giapponese del 1500.
Perché ci piace
- Takeshi Kitano di ritorno nel mondo dei samurai.
- Il gusto per l’eccesso del regista giapponese, tra toni dark e ironia.
- Alcuni momenti di grande impatto.
Cosa non va
- L'eccessivo focus sulla componente storica che rende più complesso il film per chi ne è a digiuno.