Proviamo a fermarci un attimo e pensare a cosa rende così irresistibile La spada della roccia. Anacleto? Certo. La simpatia di Merlino? Assolutamente. Ma la vera chiave del successo del classico Disney sta tutta nella buffa e ordinaria personalità del suo protagonista. Così impacciato, a tratti imbranato, altruista e soprattutto coraggioso, Semola è il ponte ideale tra il mondo epico-cavalleresco che sta a rappresentare, e quello quotidiano degli spettatori che affrontano il passare dei giorni senza infamia e senza gloria.
Come sottolineeremo in questa recensione di Kai, l'autostoppista con l'accetta, i motivi che hanno spinto non solo gli spettatori a casa, ma anche gli stessi giornalisti e produttori televisivi che hanno incrociato il proprio cammino con quello di questo strambo personaggio assurto prima a eroe, e poi a criminale, sono gli stessi alla base del giovane Artù disneyano. Le vicende di questo salvatore improvvisato e improponibile sono dunque un monito atto a ricordarci che chiunque può davvero diventare "eroe anche solo per un giorno", come direbbe David Bowie. Ciò che però ci ricorda il documentario disponibile su Netflix, è che, senza le dovute accortezze, dietro la creazione di un nuovo mito si può nascondere l'ombra diabolica di un'anima fragile. E così la luce della ribalta si fa accecante, fino a distruggere la vista, e perdere il senno, lasciando bruciare nelle fiamme dei propri demoni anche l'anima più pura e fragile come quella di Kai.
Kai, l'autostoppista con l'accetta: la trama
È il 2013 quando il giovane senzatetto (o "senza casa", come ama autodefinirsi) Kai Lawrence (all'anagrafe Caleb McGillvary) diventa famoso per aver raccontato a un giornalista locale di Fox News di aver salvato la vita di una donna colpendo il suo aggressore con un'accetta. Nasce un interesse spropositato per il giovane, considerato da molti come un eroe. Tutti lo vogliono, Jimmy Kimmel compreso. Tuttavia, solo tre mesi dopo, la reputazione di Lawrence viene distrutta quando viene accusato di omicidio nel maggio 2013.
It must be exhausting always rooting for the anti-hero
Tutto in Kai, l'autostoppista con l'accetta parte da qui, da quello "smash, smash, smash" fattosi prima testimonianza esilarante e poi meme virale. Un viaggio dell'eroe scopertosi antagonista di se stesso in primis, e poi della società, narrato da Colette Camden con attenta ironia, ma senza ipocrita derisione. Già, perché dietro a quella costruzione iniziale del mito dell'eroe per caso si nasconde in realtà un'accusa neanche troppo velata verso una società dell'intrattenimento sempre pronta al fenomeno del momento da sfruttare, deridere, spremere e poi gettare. Kai era il candidato perfetto, il nuovo hippy contemporaneo da inseguire, indagare a suon di telecamere per guadagnare, senza accorgersi che dietro quell'aura di altruismo e pace fraterno si nascondeva invece l'ombra della ferocia improvvisa e del lupo vestito da agnello.
Risulta pertanto vincente per la Camden partire da lì, da quei momenti salienti che vedono un caso giornalistico imbastito, costruito e amplificato sulla scorta dei social media. Una trasformazione che la regista recupera e restituisce in tutte le sue fasi evolutive, senza tralasciare nessuna voce tra coloro che hanno creduto nella buona fede di Kai, e tra chi invece aveva annusato nel giovane un sentore di pericolosità latente. Affidandosi alla potenza di testimonianze dirette, filmati di archivio, e spezzoni di comparsate televisive, (con tanto di istantanee fotografiche prese da piattaforme come Instagram) ogni pensiero, o ricordo da parte degli intervistati trova una propria corrispondenza visiva che aumenta la veridicità di quanto detto, e l'assurdità degli eventi raccontati.
Storie di ordinaria follia
"Assurda": ecco come può sintetizzarsi questa involuzione personale di un'anima vagabonda, uno spirito senza casa, preso in prestito dalla curiosità morbosa del pubblico mediatico, e dato in pasto alle luci della ribalta, finendo per ritrovarsi vittima delle proprie tele intessute di fragilità, insicurezze e fuochi brucianti di rabbia repressa. Già, perché dietro quei gesti di altruismo e azioni eroiche si cela una caldaia lasciata libera di sprigionare il proprio fuoco iracondo. Uno svelamento mai improvviso, ma realizzato con calma e a piccoli passi dalla Camden e dal suo montatore grazie ai quali l'angelo si è rivelato demone, in un mare di mille sfumature. Un voltafaccia compiuto sulla spinta di testimonianze dirette, tra conoscenti, vittime, famigliari o tessere ignare del proprio ruolo di rivelatori di una nuova natura di un freak divertente tramutassi in un boogieman sociale, un villain da attaccare, un "house-less" condannato a vivere per cinquant'anni nell'esiguo spazio di una cella carceraria.
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Accettare la rabbia repressa
Affidandosi alla contemporaneità dei fatti narrati, Kai, l'autostoppista con l'accetta è un prodotto costruito su immagini nitide, accese, figlie della società dei mass-media e dei reality show. In questa galleria di cineprese sempre accese e tecnologie all'avanguardia stride ancor di più il buio di un'anima come quella del protagonista, un giovane che perfino nell'atto che l'ha reso celebre celava segni di instabilità emotiva. Ed è proprio volendo indagare fino in fondo quegli inceppamenti psicologici che hanno ingolfato il comportamento di Kai che la regista sfrutta appieno la potenza latente dei primi e primissimi piani sul ragazzo. Se gli amici, i famigliari e le forze dell'ordine vengono pertanto immortalati seduti, nella posizione standard di chi si trova a rivestire il ruolo dell'intervistato, ogni frammento televisivo o fotografico di Kai riprende il ragazzo da vicino, quasi con l'intenzione di entrare e scrutare ogni frammento di una mente ombrosa, ambigua, isterica, caotica.
È un documentario che trascina senza grandi pretese, ma sfruttando l'idiosincrasia degli eventi indagati, Kai, l'autostoppista con l'accetta. Un divertissement pronto a lasciare spazio a una natura drammatica e criminale, forgiato sulla scia di un paradosso interno già implicitamente anticipato dallo stesso titolo dove la risata lascia spazio ai brividi, e la forza del sorriso e dell'attrazione mediatica, al gelo di un corpo esanime e il rosso di un sangue innocente.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di Kai, l'autostoppista con l'accetta sottolineando quanto l'assurdità della vicenda vissuta dal protagonista serva soprattutto alla regista per mostrare i segreti dietro il processo di un nuovo fenomeno mediatico da sfruttare, senza tener conto dei suoi bisogni, o delle sue fragilità mentali e non. Un documentario che va oltre la componente investigativa, per analizzare anche quella umana e psicologica.
Perché ci piace
- L'indagine compiuta su più livelli, tra crimine, psicologia e denuncia sociale.
- Il raccogliere quanto più materiale di archivio disponibile per fornire un resoconto esaustivo e completo.
- La selezione dei filmati su Kai sempre in primo piano, quasi per scrutargli la mente.
Cosa non va
- La durata del documentario. Dieci minuti in più sarebbero stati perfetti.
- La scelta di non mostrare o rivelare come stia un ragazzo come Kai in prigione.