Non c'è nulla per cui sorprendersi: in ogni famiglia c'è sempre quel fratello ribelle, quello fuori dagli schemi e dalle convenzioni. E se ogni produzione registica è un po' come una famiglia fatta di celluloide, allora nella filmografia di Quentin Tarantino, Jackie Brown è il figlio anarchico, quello che rifiuta le regole per vivere autonomamente. Un figlio non naturale, ma adottato, perché non originato direttamente dal grembo materno di una mente alacre come quella del regista, ma preso in prestito dal romanzo del 1992 Punch al rum di Elmore Leonard.
Eppure, nelle sue fasi di crescita, Jackie Brown ha saputo assimilare e far proprie le caratteristiche tipiche della famiglia Tarantino: in lui vivono gli omaggi cinematografici, le battute intrise di sarcasmo e satira dilaniante; le musiche vanno a scontrarsi con l'impatto visivo che accompagnano, mentre le pistole sparano, e le bocche parlano al ritmo di una mitragliatrice in atto. Tenta di imitare i propri fratelli Jackie Brown, ma la sua autonomia lo rende inevitabilmente il membro più osteggiato, meno capito, e troppo spesso ignorato. Quel figlio incompreso oggi compie 25 anni: l'età per bere alcolici in America l'ha superata da tempo, eppure, giunto a un quarto di secolo, Jackie Brown continua a camminare lungo il nastro dell'aeroporto, imitando il Benjamin Braddock de Il laureato, e inseguendo una rivalutazione che tarda ad arrivare, ma che ormai è giusto compiersi.
Animo disincantato di uno sguardo dilatato
Anonimo, impersonale; noioso: sono solo alcuni degli epiteti con cui è stato descritto Jackie Brown. Eppure il terzo film di Quentin Tarantino è semplicemente un'opera incompresa. Lontana da quella dinamicità di montaggio e da quelle panoramiche a schiaffo che colpiscono lo sguardo dello spettatore sancendo l'unicità di uno stile personale come quello del regista di Knoxville, Jackie Brown si fa pellicola dilatata, elegante, che vive negli spazi delle azioni, arricchendosi di dettagli e spunti di riflessione. Svestendosi di orpelli estetici e di quel barocchismo dialogico che decora il più puro divertissement tarantiniano, la macchina da presa abdica adesso il proprio predominio visivo, per ancorarsi al corpo dei propri personaggi. Non più libera di curiosare e muoversi nello spazio di un indefinito altrove, adesso la cinepresa insegue ogni protagonista, lo anticipa con carrellate a precedere, o inseguire, li scruta a debita distanza senza intromettersi nei loro pensieri, o azioni. Si limita a immortalarli, registrandone debolezze, insicurezze, ossessioni ed ego più o meno smisurati. Ecco perché dietro a ogni singolo raccordo si piò intravedere il film più personale e introspettivo di Tarantino; una pellicola disincantata e dall'epilogo dolce-amaro, incapace di affondare nel sottosuolo stilistico delle produzioni a lei precedenti e susseguenti per vivere di indipendenza. Dietro a quell'incomprensione e ostracismo, si cela una scrittura inedita, umana di Tarantino; un esperimento melodrammatico filtrato da una cinefilia mai dimenticata, e da una commistione di dettagli che riprendono e riproducono la poetica visiva tarantiniana, come il feticismo per i piedi, o l'inquadratura dal basso all'interno del baule di una macchina.
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Riscrivere il Blaxploitation
Anticipando e ribaltando il processo di scrittura di una dichiarazione d'amore sincera rivolta al cinema compiuta con C'era una volta a... Hollywood, già con Jackie Brown Quentin Tarantino redige un atto pieno di sentimento alla Settima Arte, e in particolare al genere Blaxploitation degli anni '70. Un omaggio sincero, compiuto non solo chiamando a sé l'interprete per eccellenza di quell'universo cinematografico come Pam Grier (lo stesso nome, Jackie Brown è un chiaro riferimento al personaggio di Foxy Brown), ma intessendo un abito visivo della stessa stoffa di quello celebrato. La fotografia sporca, la presenza di trafficanti di droga e/o armi, e di assassini di professione, sono toppe cucite insieme da una colonna sonora funk-soul con le quali Tarantino può sia creare un nuovo modello di Blaxploitation, che una sua reinvenzione compiuta secondo i propri dettami stilistici, e attraverso la presenza di un'eroina femminile afroamericana, scevra dei connotati vendicativi e violenti delle pellicole dell'epoca.
La sua Jackie Brown non è la Beatrix Kiddo di Kill Bill: Volume 1. In lei non brucia alcun fuoco di vendetta, ma solo tanta solitudine e disillusione - con un tocco di sano cinismo - per quel suo ritrovarsi vittima del sistema, e membro svantaggiato della società, soggiogata dal suo genere e dalla sua etnia. Ciononostante, Jackie Brown è un'arma mentale; una revolver senza bossoli, o pallottole, ma caricata a furbizia e astuzia. Un'eroina tarantiniana, un modello su cui imbastire altre menti alacri e fatali, come la Daisy Domergue di The Hateful Eight, o la Shosanna Dreyfus di Bastardi senza gloria.
Underdog ombrosi con anime realistiche
Ma quelli di Jackie Brown, per quanto ben tratteggiati, sarebbero corpi senza anima, braccia e gambe che si muovono senza meta, e attratti dal profumo dei soldi, se non fossero insigniti di una personalità unica e definibile grazie al talento dei propri interpreti. Underdog ombrosi che agiscono tra le vie assolate di una Los Angeles afosa e claustrofobica, i personaggi di Jackie Brown, per quanto vittime delle proprie passioni e celate fragilità, non risultano mai eccessivi, o maschere barocche dalla parlantina facile e fulminante, ma estremamente reali. Grazie anche al certosino lavoro compiuto dai propri interpreti, ogni uomo o donna che vive nella giostra contemplativa di Jackie Brown odora di quotidianità; un realismo marcio, nato dalla polvere da sparo e sotto l'ombra di tangenti e cauzioni. Un gioco all'intelletto e all'approfondimento caratteriale attraverso il quale segnare il percorso psicologico di ogni singolo personaggio, per renderlo profondo, imperfetto, umano.
Non più fucine di battute dissacranti e animali istintivi brucianti di violenza, i protagonisti di Jackie Brown sono guerrieri di una lotta personale combattuta contro i propri sentimenti, e dalla quale il destino li segnerà inevitabilmente come perdenti. Opportunismo, senso del dovere, follia: ogni personaggio dovrà combattere il proprio fantasma personale. E così l'Ordell di Samuel L. Jackson (fil rouge costante dell'intera produzione tarantiniana) si mostra come uomo sibillino, mefistofelico, tanto freddo e feroce, quanto inevitabilmente attraente e affascinante. Un uomo cinico, perfetto doppio del folle e insicuro Louis (un irresistibile Robert De Niro) e contrappunto umano di Max Cherry (Robert Forster), unico barlume di onestà in un microcosmo di violenza e traffici illeciti. Non a caso, la sua sarà la mano amica e salvatrice che tenterà di trarre in salvo la stessa protagonista, da un branco in azione di lupi famelici. Dopo "diciannove anni di questo schifo" di un lavoro compiuto quasi per inerzia, sia Max, che Jackie Brown sembrano abbiano trovato un fascio di luce nel buio dell'anima; un epilogo perfetto, di una narrazione dalla focalizzazione interna (e per questo disorientante e perennemente in suspense) dove l'amore salva l'anima, ma non se stessi e il proprio destino, sancendo così un racconto intimo, introspettivo, così vicino eppure così distante dall'universo di Quentin Tarantino, che proprio per questo chiede salvezza, ammirazione, rivalutazione.
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