Iniziazione di una spia
Sarebbe rassicurante se il mondo si potesse davvero interpretare alla maniera manichea: tu sei buono, tu sei cattivo, quello è bianco, quello è nero, questo è giusto, questo è sbagliato. E se perfino l'esperienza di tutti i giorni ci insegna che la realtà non è così semplice, è anche vero che più si conosce, più si vive, più si ha a che fare con il genere umano, meno si riesce a credere a una sola verità, a un punto di vista univoco, alla favola secondo cui qualcuno dall'ineccepibile morale ci proteggerà dai cattivi. A maggior ragione è difficile abbandonarsi a facili ottimismi e schematizzazioni quando tutti i giorni si ha a che fare con segreti governativi, cospirazioni internazionali, atti di terrorismo dagli insospettabili mandanti, minacce striscianti al mantenimento dello status quo: se si è una spia, insomma. Gli archivi della cinematografia sono pieni di agenti che sapevano troppo, e che per questo hanno scelto di vendersi al miglior offerente, o di tradire il proprio Paese spinti da un senso di giustizia più alto di quello sancito da un governo. In questo filone si inserisce Safe House - Nessuno è al sicuro, quarto film del giovane regista svedese Daniel Espinosa, che qui si avvale dell'esperienza di Denzel Washington e del physique du rôle di Ryan Reynolds per orchestrare una storia dalla trama classica, che più classica non si può, ma non priva di una certa maestria nella messa in scena.
Reynolds veste i panni di Matt Weston, giovane agente della CIA di stanza a Città del Capo dove, lungi dal prendere parte a elettrizzanti operazioni sul campo, passa le sue giornate a sorvegliare una safe house perennemente vuota. A riscuoterlo dalla propria frustrazione è l'arrivo di Tobin Frost, noto traditore della CIA su cui l'agenzia è finalmente riuscita a mettere le mani, e che ha intenzione di porre sotto custodia e interrogare proprio nel rifugio di cui è responsabile Matt. Quando un gruppo di mercenari fa irruzione nella safe house, eliminando senza grosse difficoltà i professionisti inviati da Langley, la responsabilità della sicurezza e della cattività di Frost ricade interamente su Matt: ma non sarà semplice, per un agente ancora suo malgrado inesperto, tenere testa alla carismatica personalità e alle risorse intellettuali del prigioniero, specialmente quando il sospetto di una cospirazione interna all'agenzia suggerirà che, forse, le sue azioni non sono da considerarsi poi così riprovevoli. L'impianto narrativo messo in piedi dallo sceneggiatore David Guggenheim prende quindi le mosse da una situazione non certo nuova al pubblico cinematografico: una convivenza, e magari anche una collaborazione, difficile tra il veterano dal fascino ambiguo e il pivellino che ambisce a dimostrare il proprio valore. E la dicotomia tra i due non si basa tanto sulla disparità di esperienza, sulla facilità con cui l'uno è in grado di sfruttare ambiente e conoscenze a proprio vantaggio, contrapposta ai tentativi dell'altro, testardi ma anche molto improvvisati, di non sprecare l'unica occasione di mettersi in luce, portando a termine il compito assegnatogli. Frost e Weston sono divisi dalle rispettive visioni del mondo: disincantata l'una, restia a rinunciare alle proprie certezze l'altra. Certo è che il confronto tra queste due linee di pensiero non è affidato, in Safe House, alla componente verbale: per i due protagonisti, così come per i comprimari dai fin troppo prevedibili scopi, sono le azioni a parlare. Espinosa sembra infatti trovarsi decisamente più a proprio agio nella gestione di inseguimenti e scene di lotta che nelle sequenze di dialogo e, in generale, più intimistiche. E sono proprio i momenti più adrenalinici a costituire l'aspetto maggiormente riuscito di Safe House: tanto i combattimenti corpo a corpo quanto le corse in auto per la città (esaltata da una fotografia dinamica e da colori saturi) tradiscono una notevole cura registica, sfuggendo al rischio di risultare eccessivamente confusionarie. Se a livello di sceneggiatura non regala grandi momenti di originalità, il lavoro di Espinosa ha comunque dalla sua una convincente resa della componente più spiccatamente fisica della pellicola, e un cast che si dimostra ben assortito. Se Reynolds incarna efficacemente il giovane di belle speranze, ancora a digiuno di molte cose ma all'occorrenza in grado di superare le proprie ingenuità, è ancora una volta Denzel Washington, ormai un tutt'uno con il personaggio dell'uomo che ne ha passate tante, e per cui "buono" e "cattivo" sono solo categorie senza significato, a spiccare per presenza scenica, quantunque anche in virtù del trattamento troppo sbrigativo riservato ai personaggi secondari, i pur bravi Vera Farmiga e Brendan Gleeson.
Movieplayer.it
3.0/5