Infanzia in pericolo
Antoine Doinel, tredicenne incompreso e fragile nonostante l'apparenza sfrontata, vive con la madre e il padre acquisito in un piccolo e angusto appartamento di un quartiere popolare di Parigi, dove il ragazzo dorme in un letto ricavato in uno stretto corridoio, sulla soglia della porta, a testimonianza del suo ruolo di terzo incomodo - di peso - all'interno del difficile mènage familiare della coppia (il padre non pensa che alle auto e non fa che ricordare ad Antoine la sua generosità, che consiste nell'averlo riconosciuto come figlio suo, mentre la madre è coinvolta in continue relazioni extra-coniugali).
L'ottusa indifferenza degli adulti e la cecità affettiva dei genitori verso Antoine lo spingono a silenziosi gesti di rivolta: marinare la scuola, mentire agli insegnanti, rubare i soldi della spesa; azioni che tradiscono il bisogno di comprensione del ragazzo, ma anche l'esigenza di vivere diversamente la propria esistenza. Nessuno però desidera capirlo realmente: solo l'amico e compagno di scuola René lo accompagna nelle sue malinconiche avventure per le strade di Parigi.
L'ennesima bugia di Antoine, che inventa la morte della madre quando la scopre in tenere effusioni con il capoufficio, genera però una serie di reazioni che aggravano ulteriormente la sua condizione di emarginazione, evidente soprattutto nella collocazione spaziale del ragazzo (a casa, a scuola, in prigione). Dopo una prima fuga, i genitori sembrano finalmente rendersi conto del suo disagio e gli riservano effimere carezze e abbracci. Ma quando il rigido professore accusa Antoine di aver rubato il finale del tema da Balzac, umiliandolo in classe, la situazione precipita: il giovane ruba la macchina da scrivere dall'ufficio del patrigno per ottenere i soldi necessari per sopravvivere, ma non riuscendo a smerciarla, decide di riportarla al suo posto venendo colto in flagrante.
Consegnato alla polizia dagli stessi genitori, Antoine è prima arrestato, poi assegnato ad un centro di osservazione per minori delinquenti, dove non può ricevere la visita dell'amico René e dove è interrogato da una psicologa. Durante una partita di pallone, Antoine fugge e raggiunge - in una lunga e inarrestabile corsa - il mare , che non ha mai visto; un mare che si carica di tutte le speranze di libertà e di felicità del giovane. In uno dei finali più aperti e commoventi della storia del cinema, Antoine percorre con incertezza la spiaggia, lambisce l'acqua con i piedi e indietreggia, come se quella meta a lungo agognata avesse alla fine tradito le sue attese di sollievo e riscatto. Il suo ritorno alla costrizione, alla gabbia sociale, è cristallizzato nello stop-frame che conclude il film in una sorta di non-conclusione, che ci regala in primo piano il volto di Antoine, rivelatore dell'inquietudine di vivere e di un equilibrio interiore.
Fare i "quattrocento colpi", fare il diavolo a quattro, significa soverchiare l'ordine prestabilito e consolidato. Una delle opere cardine della nouvelle vague per la traduzione filmica dei proponimenti teorici del movimento critico e registico francese, nato in contemporanea con i
Cahiers du cinéma fondati da André Bazin e Jacques Doniol-Valcroze nel 1951. Il manifesto programmatico di quella generazione - oltre a François Truffaut, Jacques Rivette, Eric Rohmer, Claude Chabrol e poi anche Jean-Luc Godard - fu scritto proprio da Truffaut che, con Une certaine tendance du cinéma français, auspicava il definitivo superamento delle istanze del cinema francese del dopoguerra, in un processo di rinnovamento globale, non solo d'oltralpe, che si prometteva di seguire le posizioni teoriche di Astruc, per cui la macchina da presa è una sorta di penna (camera-stylo) grazie alla quale i cineasti scrivono ed elaborano opere molto personali (Truffaut, come il suo protagonista, era figlio indesiderato di padre ignoto, scampato al riformatorio e ad un arresto per diserzione).
La prospettiva autobiografica rappresenta per Truffaut l'occasione di afferrare il reale, "lo splendore del vero", cogliendo emozioni, paure, pulsioni autentiche. L'odissea di Antoine Doinel, che poi proseguirà nelle pellicole successive del regista (L'amore a vent'anni, Baci rubati, Non drammatizziamo... è solo questione di corna e L'amore fugge), stupisce ed emoziona per la freschezza e la sincerità della narrazione, che combina improvvisazione nella recitazione di Jean-Pierre Léaud e costruzione rigorosa, aderenza realistica e capacità di astrazione.
Poema della solitudine dell'infanzia, I quattrocento colpi simboleggia non solo la lotta degli esponenti della nouvelle vague contro il conformismo del cosiddetto "cinema di papà" (portato avanti da registi come Autant-Lara e Clouzot), responsabili di film di "sceneggiatura" più che di regia, ma anche e soprattutto la ribellione di Antoine nei confronti delle istituzioni fondanti della società civile. La famiglia, la scuola, il riformatorio, la polizia, sono organismi ottusi e sterili, incapaci di sostenere un bambino nel suo percorso di crescita e di donargli il necessario affetto e la dovuta attenzione.
Al contrario Truffaut si incolla letteralmente al suo protagonista, un adolescente rimasto solo con i suoi pregi e difetti, costretto a sopravvivere in un mondo ostile, che mal lo sopporta. Non si allontana un istante il regista, deciso ad alternare l'apparenza documentaristica agli intensi primi piani di Antoine. "La cinepresa soggettiva è il contrario del cinema soggettivo: quando ci si sostituisce al personaggio è impossibile identificarsi in lui. Si ha cinema soggettivo quando lo sguardo dell'attore incontra quello dello spettatore". Nel film si innesta in maniera evidente la dialettica fra gli interni claustrofobici, filmati in piani riavvicinati - soprattutto con campi e controcampi - ed esterni dalla illusoria funzione salvifica, ripresi con movimenti di macchina e campi lunghi.
La macchina da presa non si sostituisce mai allo sguardo del giovane, ad eccezione della sequenza in cui Antoine viene condotto in carcere sul camioncino della polizia. Il punto di vista oggettivo sul giovane si accompagna a una visione soggettiva della città di Parigi da parte del protagonista, che si sta allontanando da Parigi, e a due inquadrature semi-soggettive nelle quali la cinepresa è collocata alle spalle di Antoine, proponendo uno sguardo analogo, ma non coincidente, con quello della soggettiva iniziale. Questa scelta tecnica costituisce in realtà una presa di posizione nei confronti di Antoine e del mondo, una scelta che coniuga estetica e morale.
Tale decisione non è solo il segnale di un profondo rapporto di simbiosi tra Truffaut e Antoine, ma è l'indice di un motivo strisciante nel tessuto filmico, quello della costrizione e della prigionia. La sequenza del colloquio con la psicologa del riformatorio è in questo senso emblematica: illuminato da sinistra da una lampada, in penombra e in mezza figura, Antoine sembra coinvolto piuttosto in un interrogatorio della polizia, sensazione accentuata dall'ellissi della figura della psicologa, relegata in controcampo. L'episodio, nella quale la durata cinematografica pare corrispondere alla durata reale della conversazione, sottolinea la portata della poetica adottata da Truffaut a partire da questo film fondamentale della sua carriera: rendere l'immediatezza e la sincerità attraverso un'attenta e forte messa in scena, una ricercata e studiata direzione, simbolica e portatrice di senso.