Indiana Jones e il Quadrante del Destino, il quinto e ultimo (o no?) film della saga di Indiana Jones, arrivato da alcune settimane sui nostri schermi, è uno di quei film che ha fatto discutere. Non c'era il tocco di Steven Spielberg, certo. Il film ha messo in scena un eroe diverso, più stanco, in pensione. A tratti, per dei flashback, arditamente ringiovanito con la computer grafica. Ma quello che ha fatto discutere sono stati soprattutto i viaggi nel tempo. Sì, nel suo ultimo film, l'Indy di Harrison Ford trova un macchinario (la Macchina di Anticitera o di Antykithera, cioè il Quadrante che dà il titolo al film) che, opportunamente usato, è capace di trasportarci nel passato. È questo che ha fatto discutere: i viaggi nel tempo non sono molto adatti al "canone" di Indiana Jones, sono più cinema di fantascienza che cinema d'avventura, e Indiana Jones ha sempre fatto parte di questo genere.
Pur con una serie di azioni che richiedono, come è giusto, una buona sospensione dell'incredulità, le storie di Indy in qualche modo hanno sempre avuto un certo realismo (certo, il frigorifero e il finale del quarto film, Indiana Jones e il teschio di cristallo, già mettevano in dubbio questa tesi...). Vedere il professor Jones che viaggia nel tempo richiede un altro livello di sospensione dell'incredulità. E poi lo aveva detto Steven Spielberg in persona, rispondendo a una domanda, qualche tempo fa: i viaggi nel tempo non sono cosa da Indiana Jones. Su questo possiamo essere d'accordo. Ma, visti anche altri film recenti, come The Flash, ci chiediamo: perché il cinema è così ossessionato dal tempo? Perché si ricorre così spesso ai viaggi nel tempo?
Indiana Jones e il Quadrante del Destino: Indy nel 200 a.C.?
Iniziamo dal film che ci ha stimolato questa riflessione, Indiana Jones e il Quadrante del Destino. Siamo stati molto colpiti che l'espediente della macchina del tempo sia stato usato perché, come dicevamo, è qualcosa che non appartiene al mondo del professor Jones. Sia chiaro: diverso è aver giocato con il tempo a livello di sceneggiatura e montaggio, cioè con i flashback in cui Harrison Ford, ringiovanito (piuttosto bene) al computer, si trova a battersi con i nazisti. Quella è un'ottima idea, per contestualizzare il prosieguo della storia e ricollegarsi a due dei primi tre, storici, film di Indiana Jones: I predatori dell'arca perduta e Indiana Jones e l'ultima crociata. Il far tornare indietro nel tempo Indy fisicamente, letteralmente, con una macchina del tempo che, per di più, è nata qualcosa come duemila anni prima, come detto, porta la saga nel territorio della fantascienza, una modalità che non le appartiene. Così, vedere Indiana Jones, che siamo stati finora abituati a seguire dagli anni Trenta agli anni Sessanta (anche prima, se pensiamo alla serie Il giovane Indiana Jones) agire nel 200 a.C., ai tempi di Archimede e dell'Assedio di Siracusa, lascia perplessi. È un brusco cambio di genere, di atmosfera, di tono. Perché è stato fatto?
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Se il viaggio nel tempo è solo un colpo ad effetto
La risposta, nel caso del film di Indiana Jones, ci sembra più che altro pratica. Con un espediente di questo tipo ci sembra che gli sceneggiatori abbiano semplicemente voluto creare un effetto sorpresa, un effetto "wow", creare stupore e sgomento in un film che, altrimenti, non aveva molti altri mezzi e non aveva altre idee per stupire. Certo, ci sono alcune buone sequenze d'azione, alcuni nuovi personaggi, un Indy senile, e per questo, nuovo. Ma quel viaggio nel tempo ci è sembrato solo un modo per fare un colpo ad effetto, per dare una scossa a un film che, fino a quel momento, non ne aveva. Sono sicuro che tutti ricordiamo la prima volta che abbiamo visto I predatori dell'arca perduta, e quel finale, quasi horror, in cui l'arca veniva scoperchiata. Ecco, quello era un finale ad effetto, sorprendente, straniante. Però era a suo modo coerente con quello che avevamo visto fino ad allora. Qui si è cercato l'effetto a sorpresa, ma andando troppo lontano dalle premesse del film.
The Flash: il viaggio nel tempo per creare il Multiverso
Anche nel caso di The Flash si é ricorsi all'espediente del viaggio nel tempo, un artificio che nel DCEU, l'universo espanso della DC Comics, non era mai avvenuto (nel MCU, l'universo della Marvel, invece sì, in Avengers: Endgame). Ora, anche in The Flash potrebbe essere considerato una forzatura. Ma lo è fino a un certo punto. Prima di tutto, chi va a vedere un cinecomic, in particolare un film di supereroi, sa di essere in un mondo meno realistico, con regole diverse, rispetto a un film d'avventura. E poi, giocare con il tempo in un film dedicato a Flash, il supereroe che ha come potere proprio quello di sfidare il tempo, può avere un suo senso. Certo, anche qui serve una grande sospensione dell'incredulità. Quando leggevamo i fumetti e vedevamo i cartoni animati di Flash da bambini c'era questo eroe che andava veloce, velocissimo, più di tutti gli altri. Credere che possa andare così veloce da passare, cioè attraversare i corpi solidi, o addirittura tornare indietro nel tempo è un'altra cosa. In questo caso ci è sembrato un buon espediente per dare vita a quello che, da altre parti, viene creato con il passaggio tra varie dimensioni: cioè il Multiverso. Con i viaggi nel tempo si possono dare vita ad altri universi, e questo permette una serie di sorprese.
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Il viaggio nel tempo: così vale tutto
Volendo giungere a una prima conclusione possiamo dire questo. Il viaggio nel tempo è così usato oggi perché permette agli sceneggiatori, ai registi, ai creatori di mondi - così come lo fa, ad esempio, ogni film basato sul Multiverso - di andare al di là delle regole, di creare storie dove tutto è possibile, tutto ammesso, dove si può quindi lasciar andare la fantasia dello spettatore senza dover giustificare molto. In questo modo si creano delle storie dove, per dirla molto semplicemente, vale tutto. Il che, a volte, è un po' troppo facile. Ci è rimasta impressa una dichiarazione di Ridley Scott, a Venezia, tanti anni fa, quando era venuto a presentare una nuova versione di Blade Runner. Sentite cosa ci aveva detto. "La fantascienza è un genere bellissimo, è un universo dove può succedere di tutto" rifletteva. "L'importante è tracciare una serie di regole, trovare una sorta di verità nel fantastico, altrimenti la storia non funziona e tutto diventa un po' sciocco. In Blade Runner abbiamo creato un universo all'interno del quale la replica degli esseri umani era possibile: lo abbiamo reso credibile, in modo che si potesse accettare. Il film funziona proprio perché fissa bene i limiti della storia". Ecco, il rischio di costruire mondi e storie dove "vale tutto" rischia di non renderle credibili fino in fondo e in questo modo di far uscire lo spettatore dalla storia.
Terminator: Genisys: se il viaggio nel tempo cambia tipo di film
Si deve stare attenti, insomma, quando si gioca con il tempo. Perché il rischio è sempre alto. Prendiamo una franchise come Terminator. La possibilità di viaggiare nel tempo è assodata, è la regola base senza la quale la storia non potrebbe davvero esistere. Skynet, cioè le macchine che dominano il mondo, mandano dal futuro un cyborg, nella Los Angeles del 1984, in modo che uccida Sarah Connor, la madre di John Connor, prima che dia alla luce colui che, cresciuto, avrebbe organizzato la resistenza contro le macchine. Il viaggio nel tempo, però, nella saga di Terminator, è la premessa, il punto di partenza, per un film di fantascienza e d'azine che poi diventa altro, una storia di caccia all'uomo e di sopravvivenza, un B Movie che diventa di serie A per la sua pregevole fattura. Il viaggio nel tempo non è la chiave della storia. E allora un film come Terminator: Genisys, ennesimo sequel non riuscito dei primi due film, sbaglia quando comincia a fare dei viaggi nel tempo la chiave della storia, avvicinandosi a un film come Ritorno al futuro parte II, e dando vita ad una trama in cui, viaggiando nel passato si modifica il futuro, e cambiano i personaggi. Un John Connor che diventa cattivo è qualcosa che in Terminator non ha senso. E torniamo così al discorso di Ridley Scott. Mancano le regole, quel saper trovare una sorta di verità nel fantastico.
Ritorno al futuro e Non ci resta che piangere e i loro eredi
In tutto questo, ovviamente, non rientrano i film in cui il viaggio nel tempo è la chiave. Ritorno al futuro, non a caso citato ampiamente, e in modo molto divertente, in The Flash, è il capostipite, e Ritorno al futuro parte II, con l'idea del passato alternativo (in quel caso era il 1985 alternativo) ha dato il via a molte idee per altri film. Lo avevano fatto anche i nostri eroi Massimo Troisi e Roberto Benigni, senza espedienti fantascientifici, ma solo con un'idea a cui si doveva credere per godersi il film, in Non ci resta che piangere. Sono film che, usciti quasi 40 anni fa, continuano a influenzare il cinema. E il cui schema, riproposto spesso oggi, se fatto nel modo giusto, non ci appare forzato. Il cinema italiano ha riproposto spesso lo schema del viaggio nel tempo, con il film Il primo Natale e con Non ci resta che il crimine, diventato poi una trilogia (e ora una serie). Non è un caso che a dare il via ai progetti sia stato Nicola Guaglianone (che ha fatto viaggiare nel tempo anche un personaggio di Freaks Out, Franz), grande ammiratore sia del film di Zemeckis che del classico di Benigni e Troisi. Il viaggio nel tempo permette una costruzione narrativa sempre divertente, giocando sul paradosso. Se lo schema che crea il sorriso è "l'uomo sbagliato nel posto sbagliato" caro a Blake Edwards, il paradosso permette di giocare su due elementi: lo straniamento di trovarsi in un'epoca diversa, senza gli elementi della propria, e il vantaggio di sapere prima degli altri che cosa sarebbe successo.
Il loop temporale: imparare dagli errori
Ancora diverso è lo schema del gioco con il tempo, quando non consiste nel tornare indietro in un preciso momento storico, ma quando il paradosso è quello che ci porta indietro, ogni giorno, all'inizio della stessa giornata. È il cosiddetto loop temporale, e, in qualche modo, avvicina il cinema alla narrazione dei videogame, in cui, una volta esaurite le vite, si ricomincia daccapo. La similitudine con i videogame è più evidente in certi casi che in altri, come vedremo. Il capostipite del genere è Ricomincio da capo, il film di Harold Ramis con Bill Murray, in cui un reporter televisivo rivive ogni volta il famoso Giorno della marmotta. Il film ha avuto remake e nuove declinazioni. È stato riletto in chiave action/war movie in Edge of Tomorrow - Senza domani, di Doug Liman con Tom Cruise, in cui era evidente la parentela con il linguaggio dei videogiochi, è stato rifatto in versione italiana da Giulio Manfredonia con Antonio Albanese, e con il titolo È già ieri. E poi riscritto ancora in chiave di commedia romantica alcolica con Palm Springs - Vivi come se non ci fosse un domani. Ma i successori di Ricomincio da capo sono tanti. Qui lo schema è molto semplice: rifare ogni volta la strada, tornare sui propri passi, permette di fare attenzione ai propri errori e correggerli. E cambiare, anche come persone. E, in questo senso, il messaggio di questi film è sempre edificante. In ogni caso, il viaggio nel tempo è sempre uno schema che permette espedienti narrativi interessanti, codificati, sicuri. Un canovaccio su cui apportare ogni volta delle variazioni.
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Oppenheimer: tornare indietro nel tempo per elaborare i sensi di colpa
Ma viaggiare nel tempo vuol dire anche ambientare tutta una serie di film e serie in epoche precise. E questo è un discorso a parte, e ne avevamo parlato in un altro articolo, raccontandovi l'ossessione per gli anni Ottanta. Essere ossessionati dal tempo vuol dire anche tornare indietro sistematicamente ad alcune epoche. Non si tratta di viaggi nel tempo fantascientifici, assolutamente. Si tratta di ambientare delle storie in alcuni momenti precisi. Oppenheimer di Christopher Nolan, ad esempio, è l'ennesimo ritorno alla Seconda Guerra Mondiale, così come tantissimi sono stati i ritorni alla guerra in Vietnam. Detto che, ancora una volta, Nolan gioca con il tempo a livello narrativo, impostando la storia su più piani temporali, il ritorno al passato qui è quello che ci porta a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, cioè alla Seconda Guerra. Spesso il cinema americano è tornato lì in modo piuttosto glorioso, anche per dire che forse è stata l'ultima guerra giusta che l'America ha combattuto. In questo caso, il film di Nolan si avvicina a molti dei film ambientati in Vietnam. Tornare indietro a quegli anni vuol dire riflettere sul passato in modo critico, fare un mea culpa, elaborare il senso di colpa per aver creato un'arma di distruzione di massa che ha creato uno sterminato elenco di morti. Ecco, in questo caso tornare indietro nel tempo ha sempre senso.