Quel senso di comunità ce lo aveva persino nel cognome. Villaggio. Una parola che sa di gente che si conosce, sta insieme, si vuole bene e si detesta; di persone unite dall'affetto, dall'invidia, o forse dall'ipocrisia. Ecco, Paolo Villaggio ha mantenuto la promessa del suo cognome, perché ci ha tenuti insieme, ha fatto di noi spettatori un paese popolato e unito dall'affetto incondizionato nei confronti di un grande attore e del suo inetto Fantozzi. Un paese, quello che abbiamo abitato grazie a lui, pronto a guardarsi dentro e attorno alla ricerca di disgrazie pubbliche e private di cui ridere con l'amaro in bocca. No, non pensiamo di esagerare se, pensando al Charles Chaplin di Tempi moderni, fagocitato dagli ingranaggi delle fabbriche senza smarrire il sorriso smagliante, ci viene in mente anche Paolo Villaggio.
Perché il suo ragioniere goffo dalla voce ovattata, dalla lingua abituata a fare il tergicristallo davanti ad una tentazione, dai rantoli timidi condannati ad un'infinita repressione, è stato proprio questo: il simbolo di un uomo moderno schiacciato dai meccanismi del potere e dalle convenzioni sociali; asservito, indolente, ma a suo modo sognatore. La grandezza di Villaggio è stata tutta qui: nel farci sentire migliore di lui mentre ci stavamo trasformando in lui, nell'illuderci di poterci salvare nascondendoci dietro il nostro dito puntato verso quel grassoccio signore perennemente frustrato da desideri troppo grandi per quel miserabile uomo mediocre, prima che medio.
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Com'era umano lei
Così non è stato. Siamo stati fagocitati tutti. Perché ci interessa davvero "chi ha fatto palo", iniziamo tutti diete che non finiremo e godiamo davvero nel gridare al mondo che qualche film apprezzato dalla critica "è una cagata pazzesca". Decenni prima che "mai una gioia" diventasse un vuoto mantra generazionale, Fantozzi e Villaggio, a braccetto, gridavano il loro disagio con un cinema arguto ma leggibile, complesso ma non complicato, con più strati di senso nel suo essere sempre accessibile. Perché Fantozzi era davvero il perfetto anello di congiunzione tra l'intellettuale e il popolare, dove l'inettitudine di Italo Svevo incontrava la comicità più essenziale (quasi da cinema muto), e il senso del tragicomico di Luigi Pirandello abbracciava una scrittura sempre sagace. Fantozzi è stata la spugna di Paolo Villaggio. Non solo perché subiva di continuo e incamerava valanghe di umiliazioni, ma perché attraverso il ragioniere fallibile oltre che fallito l'attore genovese ha mostrato la sensibilità di chi ha uno sguardo poroso, abile nell'assorbire il mondo che gli sta attorno. Abile a capirlo, a condannarlo, a sentirsene irrimediabilmente parte. Ecco, anche oggi che lo piangiamo, quella spugna non è stata affatto gettata. È sempre lì, pronta a tamponare con un sorriso un ferita insanguinata che racconta di noi. Un paese grigio che grazie a lui è diventato un villaggio festante. Un più vero. Un po' più unito.
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Quella nuvola che non andrà più via
C'è sempre stata una nuvola sopra la testa di Paolo Villaggio. Poteva alzare lo sguardo e rendersi conto che, forse, non era altro che uno specchio. C'era lui sopra di lui. Schiacciato come Fantozzi dalla burocrazia, Villaggio non si è mai scrollato di dosso la sua stessa creatura, rimanendo ingabbiato nel suo stesso genio. Un esilio, quello dal mondo del cinema che l'aveva ormai accantonato, che Villaggio ha vissuto con la stessa vaga malinconia che hanno sempre segnato i suoi film. "Mi sembra di non avere le braccia" diceva. Il suo non era un piagnisteo fine a se stesso, mai un modo per autocommiserarsi o scagliarsi contro qualcosa o qualcuno con una rabbia sterile.
Diceva di aggrapparsi sempre e comunque all'ironia, alla ferocia e al cinismo. Doti alimentate assieme all'amico Fabrizio De Andrè sulle loro crociere dove cantavano e scrivevano insieme. Come il suo compagno di agrodolce malinconia, Villaggio ha sempre continuato a vivere il cinema anche da lontano. In maniera feroce e atroce. Lui che ha lavorato con Federico Fellini, Marco Ferreri, Lina Wertmüller, Ermanno Olmi, ma non si è mai fatto problemi nel definire "Mario Monicelli il più grande di tutti". Lui che ha dato la sua benedizione a Checco Zalone come moderno cantastorie dei nostri tempi. Ecco, adesso sappiamo perché Fantozzi, nel bel mezzo di una nebbiosa partita di tennis, confondeva l'imperativo con il congiuntivo. Perché è il verbo del dubbio, dell'incertezza, del desiderio, delle possibilità mai sicure. Così sono state la vita di Fantozzi e la carriera di Villaggio. Parabole davanti alle quali 92 minuti di applausi sarebbero davvero troppo pochi. Perché persino alla fine, il nostro ha voluto superare il "sabato del villaggio", dove si attende il piacere, per andarsene in un grigio lunedì. Il giorno perfetto per stringerci tutti attorno a quel ragioniere che ci ha fatto sentire migliori di lui.