Il sapere della vittoria
Che cosa può offrire agli spettatori l'ennesima biografia cinematografica, in una stagione che ha visto riproporsi sul grande schermo (e anche sul piccolo, basti pensare al De Gasperi di Fabrizio Gifuni) un'inesauribile carrellata di personaggi - quasi sempre al maschile - realmente vissuti (da Howard Hughes - Leonardo DiCaprio a Hitler - Bruno Ganz di La caduta, da Alexander - Colin Farrell a Kurt Cobain - Michael Pitt)? Sì, perché Coach Carter è la storia vera di Ken Carter (Samuel L. Jackson), fresco allenatore di basket che decide di guidare la sgangherata squadra (quattro vittorie in un anno) del suo liceo di gioventù: la Richmond High School, uno degli istituti scolastici meno prestigiosi dello Stato della California, contraddistinto da una bassissima percentuale di diplomati e una, ancor meno lusinghiera, fetta di studenti che poi prosegue verso il college. È una scuola difficile, perché imperniata in un tessuto sociale complesso e multietnico; prova ne è che una parte cospicua degli allievi viene coinvolta in traffici illeciti di droga o nei meandri della delinquenza locale, finendo spesso in carcere.
La sfida di Ken Carter non è solo quella di portare i Richmond Oilers alla conquista del campionato di Stato, ma soprattutto quella di cambiare una mentalità radicata nel sistema scolastico e negli stessi genitori: una mentalità vincente e competitiva che fa dello sport uno strumento di affermazione, di ricchezza e di riscatto sociale; un orientamento disposto a chiudere tutti e due gli occhi sul rendimento scolastico, spesso carente, degli atleti, pur di assicurarsi risultati sportivi eccellenti. È contro questo patto accettato silenziosamente che coach Carter intende ribellarsi, trasformando i suoi giocatori di basket in studenti dalla media del 2,3, pronti a stare nei primi banchi a lezione e a frequentare, nel futuro, un college, dove la borsa di studio per meriti sportivi possa associarsi a una pagella gratificante. Certo, la vittoria conta, ma solo perché imparando a vincere sul campo, con onestà, impegno e umiltà, si può vincere anche fuori e capovolgere un destino che sembrava avverso. Più che un allenatore, Ken Carter è un educatore, ed è da questo ruolo che si motiva un film basato sulla sua vita, film inserito nel cartellone del Biografilm Festival di Bologna, tra le cui finalità si ricorda anche quella di ricordare ed esaltare esistenze che hanno, in qualche modo, contribuito a migliorare l'umanità. E senza dubbio, nel suo piccolo, Coach Carter lo ha fatto, scatenando anche un discreto scalpore in America.
Ripercorrendo, alla lontana, la struttura concettuale di Il sapore della vittoria, in cui l'istituzione della prima squadra interrazziale del paese si caricava di ovvie valenze sociali e politiche nella Virginia del 1971, Coach Carter è un film che, pur ritagliandosi un posto nel filone del cinema sportivo, si dimostra maggiormente interessato a uno spessore civile e alle dinamiche umane che si instaurano tra il protagonista indiscusso del film, un carismatico e convincente Samuel L. Jackson, e i suoi giocatori: Junior Battle (Nana Gbewonyo), una promessa del basket, ma dalle evidenti difficoltà di apprendimento, Jason Lyle (Channing Tatum), l'unico bianco del gruppo, il cui padre è rinchiuso in prigione; Kenyon (Rob Brown), bravo sia sui banchi di scuola che a canestro, ma incerto se accettare il ruolo di padre offertogli dalla sua fidanzata Kyra (la cantante Ashanti), rimasta incinta; il playmaker della squadra, per tutti Warm (Antwon Tanner), Damien (Robert Ri'chard), il figlio adorante di Carter, che vuole a ogni costo emulare il padre e il ragazzo più ribelle Timo Cruz (Rick Gonzalez), coinvolto in traffici piuttosto loschi.
Ammirevole è il tentativo del film di delineare i personaggi e di approfondirli senza ricorrere a un'abbandonante dose di stereotipi. Compito che riesce purtroppo solo in parte, anche perché l'intero discorso filmico è sostenuto da una dimensione didattica evidente, che chiede allo spettatore una sola cosa: di aderirvi completamente, affezionandosi ai personaggi, alle loro storie, alle loro peculiarità e sposando, in ultima istanza, il punto di vista di Carter. In questo, il film si può dire invece riuscito anche perché la messa in scena risulta coinvolgente, vista la durata - due ore e tredici minuti -, e senza eccessive sbavature, nonostante permangano diverse ingenuità e concessioni al mainstream hollywoodiano.