Il ritratto incolore di Modì
Un regista scozzese dirige un attore di origini cubane in un film su un pittore livornese, ambientato a Parigi, ma girato in Romania. Producono Stati Uniti, Francia, Germania, Italia, Romania e Gran Bretagna. E' il nuovo cinema senza frontiere, una cordata contro lo strapotere planetario delle major hollywoodiane. Nella stagione della consacrazione del macrogenere biopic, Mick Davis rende omaggio ad un artista che ben è incasellato nello stereotipo "genio e sregolatezza", Amedeo Modigliani, pittore italiano, parigino d'adozione. La particolarità del film è lo spostamento del punto di vista: non più quello del protagonista, ma quello di una società incapace di riconoscere il suo genio. Approssimativo in ogni suo elemento e penalizzato da una realizzazione alquanto confusa, I colori dell'anima - Modigliani si concentra in particolare sull'ultimo anno di vita di Modigliani (Andy Garcia), esacerbandone tutti gli aspetti: la rivalità con Picasso (un dimenticabile Omid Djalili), la dipendenza da alcool e droga, lo scollamento dalla società, ma soprattutto la tragica storia d'amore con Jeanne Hebuterne (Elsa Zylberstein), la sua musa, la donna con la quale ha messo al mondo una bambina, strappata dalle loro braccia dal bigottismo di papà Hebuterne e spedita in un convento per purificarla dall'onta ebrea di cui è macchiato il pittore.
La totale mancanza di profondità è il difetto più grande di un film che è il trionfo di sempreverdi cliché. I personaggi (tutti famosi e tutti artisti) sono malamente accennati, le loro relazioni non sono spiegate e quasi mai viene messa in scena la magia del processo creativo. Artista maledetto, perseguitato perché ebreo e costretto a vivere nell'indigenza perché restio a scendere a patti con la propria arte, Modigliani viene qui dipinto, dalla mano poco felice di Davis, come un uomo più innamorato della bottiglia che attento alla propria salute, incurante della tubercolosi che lo sta cancellando rapidamente. E' naturale, quindi, che quella che il regista vorrebbe spacciarci come la più grande tragedia amorosa della storia dell'arte trovi nello spettatore scarso coinvolgimento, perché fallisce il tentativo di instaurare una decisiva empatia tra questi e Jeanne, una donna che sacrifica tutto, figli compresi, per seguire fin nella tomba un uomo pseudo-romantico, in realtà un semplice egoista. Sono davvero pochi gli eventi degni di interesse in queste due ore di pellicola che vedono Modigliani impegnato fondamentalmente su tre fronti, tutti di poco appeal: le continue schermaglie con Picasso, delle quali non ci viene spiegato il motivo, l'amore contrastato con una donna che disegna senza occhi perché non ne conosce l'anima e la continua resa dei conti con la propria coscienza, rappresentata dal suo alter ego bambino che gli appare in continue visioni che lo tormentano e lo frantumano. Di tutti gli altri personaggi, molti dei quali con nomi troppo importanti per essere liquidati senza rispetto, non c'è dato di sapere.
Se le pecche evidenti della sceneggiatura minano alla base il film, le cose non vanno poi meglio sotto il profilo tecnico. Il montaggio è troppo caotico, così come disorientanti risultano le musiche di Guy Farley: il suo è uno scivolone fuori tempo, tra rap e remix trip-hop dell'Ave Maria. Indubbiamente suggestiva, invece, la fotografia di Emmanuel Kadosh, con i colori fortemente contrastati che contribuiscono a rendere tutto più bianco ed angelico, trasformando spesso lo schermo in un quadro, e abbastanza convincente risulta anche il lavoro dello scenografo italiano Giantito Burchiellaro, impegnato a ricostruire ex novo la Parigi del primo dopoguerra. Elsa Zylberstein, in lacrime per tutta la durata del film, ha il suo pregio principale nell'essere straordinariamente somigliante alla Jeanne originale, mentre l'interpretazione di un Garcia bravo, ma spesso sopra le righe, è vittima di un cattivo copione, infarcito di dialoghi poco stimolanti.
Così poco questo film ci fa innamorare di Modigliani e della sua arte che nel finale, quando alla competizione artistica tutti tributano un fragoroso applauso al suo dipinto, finalmente in grado di catturare il colore degli occhi di Jeanne, il nostro sguardo (e così il cuore) non può che fermarsi sul quadro di Diego Rivera, che ritrae una meravigliosa Frida, rinchiusa in una bottiglia e avvolta nella bandiera messicana, che ci fa venir voglia di tirar fuori dalla nostra videoteca il gran bel film che nel 2002 Julie Taymor dedicò alla pittrice surrealista, giusto per ricordarci che certe volte cinema e pittura possono essere un binomio vincente.