"Si muove come una farfalla, punge come un'ape". Niente meglio di queste parole poteva descrivere lo stile unico ed elegante del pugile più famoso di tutti i tempi, Cassius Clay alias Mohammed Alì, leggenda vivente per tutti gli appassionati (e non) di sport, modello di coraggio ed integrità per gli afroamericani che negli anni '60, dopo un secolo di lotte per la parità dei diritti, iniziavano ad affacciarsi timidamente alla vita pubblica rivendicando la propria presenza di cittadini veri e propri in un'America ancora piena di violenza e pregiudizi. Il film di Michael Mann sceglie di fotografare il campione nel cuore della sua carriera, concentrandosi sul decennio che va dal 1964 al 1974, gli anni dell'ascesa e dei grandi successi, della popolarità e dei guadagni stratosferici, ma anche i momenti più bui, le polemiche politiche, il conseguente abbandono del ring ed il faticoso ritorno al pugilato. Sullo schermo scorrono così le immagini della vittoria su Sonny Liston che incorona Clay campione dei pesi massimi, vittoria immediatamente seguita dall'annuncio della scelta di convertirsi alla religione mussulmana e di aderire alla Nazione dell'Islam, movimento antagonista al governo degli Stati Uniti, annunciando che il nome di Cassius Clay, affibbiato dai negrieri ai suoi avi strappati con la forza alla terra africana per essere schiavi, non gli appartiene: d'ora in poi si chiamerà Mohammed Alì. In questa prima parte la figura di Alì è affiancata dalla presenza costante di Malcom X, amico fraterno, consigliere e sostenitore del pugile, allontanato dalla stessa Islam Nation a causa dell'ammorbidimento delle sue idee (il discorso congiunto con Martin Luther King) e, successivamente, assassinato durante un comizio.
Il re del pugilato
La principale carenza del film è proprio questa: la volontà di Mann di tratteggiare un'epoca preferendo ad una rappresentazione di stampo storico-oggettivo la scelta di filtrare gli eventi attraverso il punto di vista esclusivo di Alì stesso ci impedisce di approfondire i singoli episodi (vedi la rottura tra Malcom X e la Islam Nation o il suo omicidio), generando però, nello stesso tempo, quella dimensione mitico-leggendaria da cui lo spettatore ha l'impressione di essere avvinto per tutta la durata della pellicola. Un film che non approfondisce l'aspetto politico dunque, ma che non può sfuggire dall'essere anche politico proprio perché politica è la dimensione in cui si pone Mohammed Alì in quanto guida e modello degli afroamericani e politico è il gesto che lo allontana dal ring per quattro anni: il rifiuto di andare in Vietnam ("Nessun Vietkong mi ha mai chiamato negro") e la conseguente condanna a cinque anni di reclusione. Dopo essere diventato l'idolo delle folle grazie all'esplosiva potenza atletica, all'eleganza nei combattimenti e a quel carattere un po' narciso e un po' spavaldo che lo porta a stendere a tappeto gli avversari verbalmente ben prima di averli incontrati sul ring, il campione che tutti amano viene allontanato dal pugilato ed emarginato, ma anche nel momento più critico della sua vita, Alì non perde mai il rigore morale che lo contraddistingue, acquisito anche grazie alla durezza della pratica religiosa mussulmana, e non getta mai la spugna lottando da solo, o comunque con quei pochi che sono rimasti al suo fianco, per risalire dolorosamente la china.
Michael Mann, mago dei combattimenti
Nei panni di Mohammed Alì un inedito Will Smith. Michael Mann rischia puntando sul giovane attore noto esclusivamente per film commerciali e commedie strampalate e Smith lo ripaga con un'interpretazione semplicemente magnifica "diventando" Alì. Aumentata la massa muscolare di quasi venti chili ed imparato alla perfezione l'accento del Kentucky, l'ex rapper si cala a tal punto nel ruolo da riproporre alla perfezione sia le movenze atletiche sia la profondità di quello sguardo che, dietro la parlata fluente ed i giochi di parole, cela la rabbia della discriminazione e la convinzione della possibilità di riscatto. La fotografia del film si presenta lievemente sovraesposta, quasi sbiadita, a voler denunciare anche visivamente l'epoca passata in cui è ambientata, operazione iconica questa che ricorda l'ancor più estremo bianco e nero di Toro Scatenato, ma mentre nel film di Martin Scorsese l'assenza di colore accentuava la potenza cromatica della pellicola, in questo caso il colore sbiadito dona un effetto sfumato che patina le scene rendendole simili a quelle di un documentario girato trent'anni fa. Ad esso occorre aggiungere la maestria nell'uso della cinepresa già dimostrata più volte da Mann che, unita ad un montaggio dal ritmo incalzante sapientemente alternato a scene blande e statiche ed all'impiego del digitale, oggettiva la cristallizzazione della memoria dell'uomo Mohammed Alì sullo schermo. L'apice estetico del film si raggiunge però nei due combattimenti, quello iniziale contro Sonny Liston e quello finale a Kinshasa contro George Foreman, che incorniciano la pellicola e che indubbiamente sono i più belli mai visti al cinema. Ricostruiti con precisione parossistica sulle registrazioni di quelli veri, la regia frenetica e adrenalinica fa ampio uso di steadycam che inseguono gli sguardi dei pugili, la loro paura, la loro ferocia, di micro-camere che si scagliano insieme al guantone verso visi tumefatti e di una macchina a mano nervosa ed ondeggiante che filma i singoli gesti atletici nell'energia compressa che si sprigiona sul ring.
Alì è stato più di un campione dello sport, è stato - è - un simbolo e il film di Mann omaggia ciò che lui stesso ha sempre saputo, di non essere uno qualunque, ma il più grande di tutti.
Movieplayer.it
4.0/5