Dopo aver debuttato alla Mostra di Venezia il 2 settembre (e vinto il Leone d'Argento per la regia nove giorni dopo), Il potere del cane di Jane Campion è in sala - a seconda dei singoli paesi - dal 17 novembre, e disponibile su Netflix dal 1° dicembre. Tra le varie tappe festivaliere del lungometraggio, basato sul romanzo di Thomas Savage, c'è stata anche quella del Festival Lumière, kermesse francese che omaggia il cinema del passato e ha assegnato a Campion, accompagnata da una retrospettiva completa, il Prix Lumière, premio alla carriera che ogni anno va a una figura importante del cinema mondiale (tendenzialmente cineasti, ma a volte anche attori). Thierry Frémaux, direttore artistico della manifestazione, ha addirittura scomodato un paragone con Kubrick e Malick - per l'arco di tempo che passa tra un film e l'altro - nel corso della consueta Masterclass che accompagna la consegna del premio e che riportiamo in occasione del debutto streaming del film. La diretta interessata ha subito sminuito con un sorriso la cosa: "Non sono al loro livello, me la prendo comoda tra un progetto e l'altro perché ho bisogno di una pausa prima di passare al film successivo. E ho una figlia [l'attrice Alice Englert, n.d.r.], ho voluto passare più tempo possibile con lei, e non mi pento di quella scelta. Inoltre, lavorando a due stagioni di una serie ho girato l'equivalente di sei lungometraggi."
Passione eterna
Figlia d'arte (il padre era regista teatrale, la madre attrice), Jane Campion ha sempre avuto un interesse per il mondo culturale in generale e per il cinema in particolare, che col tempo è diventato una vera e propria ossessione: "Non volevo fare altro nella vita, e quando ho fatto la scuola di cinema mi sono impegnata al massimo per realizzare qualcosa affinché potessi avere il parere delle altre persone e capire se questo percorso aveva un futuro. All'epoca frequentavo un ragazzo appassionato di fotografia, e vederlo in azione mi ha aiutato molto." La regista considera il suo doppio esordio (primo corto e primo lungo) la sfida più impegnativa della propria carriera, che ha dato frutti subito: il cortometraggio Peel, realizzato nel 1982, ha vinto l'apposita Palma d'Oro a Cannes nel 1986, e sette anni dopo, con Lezioni di piano (la cui copia restaurata è stata la pellicola di chiusura del Lumière 2021), è diventata la prima donna a vincere la Palma principale. Proprio quest'anno c'è stata la seconda, Julia Ducournau, con Titane, per il quale Campion spende parole molto positive: "Ho amato quel film, si vede chiaramente la passione della regista e la sua idea molto chiara di cosa sia il cinema."
Il potere del cane, la recensione: perdersi ai confini del western
È felice del successo delle registe donne oggigiorno? "Sì, ma ci tengo a precisare che non mi considero una regista donna. Sono una regista, punto. Mi dà fastidio la precisazione, perché solitamente nessuno parla di 'registi uomini'. Non credo che ci sia una grande differenza tra uomini e donne dietro la macchina da presa: per le due stagioni di Top of the Lake ho lavorato con due colleghi maschi [Garth Davis per la prima e Ariel Kleiman per la seconda, n.d.r.], e non c'era una vera differenza di approccio." Ci sono dei progetti che voleva realizzare e non ha potuto portare a termine? "In realtà no, e da quel punto di vista sono stata molto fortunata. Una volta che un'idea è nella fase attiva dello sviluppo e inizio a scrivere la sceneggiatura, sono sempre riuscita a completare il film; quindi, non ci sono vere occasioni mancate. E ho sempre completato i progetti come volevo io, perché la mia indole è tale da non permettere agli altri di dirmi cosa devo fare. Mia figlia è uguale, una volta che decide di fare qualcosa non la puoi fermare. Da piccola mi disse che voleva un gatto, e dopo una settimana se l'era procurato."
Top of the Lake: la natura e la mente secondo Jane Campion
Il potere dell'attrazione e dei sogni
Passando al caso specifico de Il potere del cane, la regista svela un segreto sul suo rapporto con i propri film, e su cosa l'abbia spinta a sviluppare questo progetto: "Penso che uno non capisca veramente le proprie opere fino a dopo l'uscita, quando comincia a parlarne. Questo film è profondo, scava nell'inconscio, e non capivo cosa mi attirasse verso quel mondo fino a quando ero già a lavorazione inoltrata. La psiche lavora in modo molto originale, e se ho un'energia molto potente in relazione a un mio lavoro so che vale la pena continuare. A volte sono gli attori a svelare quell'energia." Come si avvicina a una storia come questa, il cui protagonista è a dir poco spregevole per gran parte della durata del film? "Il mio lavoro è entrare in quei personaggi, il più possibile. Quello interpretato da Benedict Cumberbatch era una sfida, e mi sono avvalso delle teorie sui sogni. Ho lavorato con una specialista junghiana, che fa questo genere di analisi a livello di sceneggiatura. A seconda delle scene, mi faceva immedesimare con Phil e poi mi chiedeva che cosa servisse a me, a Jane, per raccontare la storia. E lui a volte rispondeva in modo molto duro [ride, n.d.r.]." Aggiunge: "Questo vale per tutti i personaggi, chi racconta storie deve avvicinarsi a tutte le sfaccettature, al lato tenero come a quello più cupo. È questa la parte affascinante del nostro mestiere."
Il potere del cane: ambiguità e desiderio nel film di Jane Campion