Scrivendo la recensione de Il nido dello storno, la prima cosa che viene in mente è lo straniamento vissuto dal sottoscritto quando ha visionato il film sulla piattaforma digitale del Festival di Toronto, dove il lungometraggio di Theodore Melfi è stato presentato in anteprima mondiale prima di arrivare su Netflix (negli Stati Uniti c'è anche stata un'uscita limitata nelle sale). Dato che la piattaforma riproduceva il modo in cui il film sarebbe stato visto al cinema durante il festival, quindi con un breve preambolo dedicato a sponsor vari e al regista oggetto dell'omaggio speciale dell'edizione 2021, i primi secondi del lungometraggio vero e proprio sono stati introdotti dalla sigla estesa di Netflix realizzata per le sale, con accompagnamento musicale di Hans Zimmer, anziché il classico e breve bo-bong (come lo chiamano i più). Una sigla che vista sullo schermo del computer fa un certo effetto, soprattutto come preludio a un film che, a conti fatti, sarebbe forse stato meglio mandare direttamente in streaming, senza scomodare sale e festival.
Uccellacci e uccellini
Il nido dello storno è la storia di una coppia, i coniugi Maynard, Lilly (Melissa McCarthy) e Jack (Chris O'Dowd), alle prese con un problema che porta i due ad affrontare la situazione in modi radicalmente diversi: lui si allontana dal domicilio per elaborare il lutto, mentre lei rimane a casa, a fare i conti sia con i propri sensi di colpa che con uno storno che ha deciso di nidificare nei paraggi e aggredisce Lilly quotidianamente. Inizialmente determinata a cacciarlo, lei comincia gradualmente a riscoprire gli aspetti positivi della vita, in particolare tramite l'amicizia con il bislacco Larry (Kevin Kline), psicologo divenuto veterinario e anch'egli affetto da problemi legati al passato. Il loro rapporto sarà sufficiente per riportare un po' di gioia e speranza nelle rispettive vite?
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Un lungo viaggio dalla pagina allo schermo
Quella del film è una genesi travagliata, risalente al 2005, quando la sceneggiatura originale di Matt Harris è stata inclusa nella cosiddetta Black List, che raccoglie i copioni irrealizzati più degni di nota e li porta all'attenzione dei dirigenti di Hollywood (tra i titoli più recenti che sono arrivati sullo schermo, con tanto di Oscar per la scrittura, c'è Una donna promettente, che era sulla lista nel 2018). Nel 2017, è stato annunciato che il film si sarebbe fatto con la regia del finlandese Dome Karukoski, il quale è poi passato al biopic Tolkien, e i protagonisti dovevano essere Keanu Reeves e Isla Fisher. La versione attuale è stata avviata nel 2019, con la regia affidata a Theodore Melfi, recente candidato all'Oscar per Il diritto di contare e già noto per St. Vincent, altra commedia drammatica con un ruolo importante per Melissa McCarthy. Questo spiega la presenza dell'attrice, che approfitta dell'occasione per ricordarci che è anche una brava performer drammatica, senza bisogno di trovate fisiche estreme per costruire un personaggio, e lo stesso discorso vale per Chris O'Dowd, spesso ridotto al rango di spalla comica (per Kevin Kline, invece, si tratta di un gradito ritorno davanti alla macchina da presa dopo quattro anni di pausa).
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Tutti bravissimi (agli attori già citati aggiungiamo il nome di Timothy Olyphant, da sempre un'ottima presenza), ma penalizzati in questa sede da un tono troppo artificioso, che cerca il pathos senza arrivarci in maniera organica, prendendo i non pochi spunti interessanti della sceneggiatura e trasformandoli in escamotage per raggiungere l'obiettivo della lacrima facile. Un esito inatteso trattandosi di Melfi, che nei film precedenti riusciva a trovare il giusto equilibrio fra sincerità e sotterfugio cinematografico, mentre qua è tutto costruito, controllato, calcolato con precisione millimetrica per arrivare al cuore. Purtroppo, invece, si ferma alla mente, la quale è costretta ad assimilare il cinico esercizio di stile che ha trasformato una bella storia di rapporti umani in sterile operazione che cerca di puntare a eventuali premi, sprecando un cast di talento. Storno incluso.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione de Il nido dello storno, sottolineando come il lungometraggio esageri nel cercare di farci piangere, trasformando un bel soggetto in vuoto esercizio di stile che non riesce a sfruttare bene l'ottimo cast. Un passo indietro per il regista Theodore Melfi, e un'occasione sprecata per Melissa McCarthy e Chris O'Dowd.
Perché ci piace
- Gli attori ce la mettono tutta.
- La premessa è forte.
Cosa non va
- Gli sviluppi drammatici si fanno gradualmente sempre più artificiosi, soffocando il pathos.