Recensione Il siero della vanità (2003)

Un bel thriller, quello di Alex Infascelli, che offre uno spaccato forte e originale del mondo della televisione italiana: un mondo che, nell'economia del racconto, assurge a vero "mostro".

Il 'mostro' catodico

Il mondo della televisione italiano è scosso da una serie di sparizioni, che hanno come comune denominatore il ritrovamento di una siringa con un forte narcotico nei luoghi dell'ultimo avvistamento delle persone scomparse. Le indagini, condotte dall'ex ispettrice Lucia Allasco, ora richiamata in servizio, e dal suo collega Franco Berardi, portano a un vecchio episodio di un popolare varietà, il "Sonia Norton Show": a quanto pare qualcuno sta metodicamente rapendo i partecipanti a quella trasmissione, e la stessa conduttrice è ora in pericolo.

E' un thriller atipico, questo secondo lavoro di Alex Infascelli, un film in cui lo "sfondo" (l'universo televisivo, con la sua vacuità e la sua pericolosa malia) diventa vero protagonista e reale fonte di paura. Dopo l'esordio del 2000 con Almost Blue (film con qualche spunto, ma, a parere di chi scrive, viziato da una regia incerta e da una cattiva sceneggiatura), Infascelli qui riesce a risultare decisamente più efficace, regalando un interessante spaccato di un mondo spietato, chiuso in sé stesso, che esalta e distrugge con la stessa facilità: un mondo invero più volte rappresentato dal cinema italiano, ma mai con tinte così forti, e soprattutto mai con una formula così insolita come quella del thriller. Il regista, prendendo spunto da un romanzo di Niccolò Ammanniti (anche coautore della sceneggiatura) riesce a tenere sotto controllo l'estetica da videoclip che era parsa un po' gratuita nel suo film d'esordio, concentrandosi sull'essenziale e riuscendo a non far apparire stonati i pochi momenti smaccatamente onirici presenti. La regia offre una bella atmosfera torbida, di costante minaccia, funzionale al concetto che la storia vuole esprimere: se il lato visibile, scintillante, del mondo televisivo è quello dello show, dei lustrini, del pubblico che applaude e degli opinionisti che regalano lezioni di vita, quello nascosto, ma reale e pulsante di vita putrescente, è quello del carcere sotterraneo del folle rapitore, quello del dolore, dell'annullamento dell'individuo, della disperazione e della follia. Un inferno a tinte forti, realizzato avvalendosi anche dell'ottima fotografia di Stefano Ricciotti e di un uso molto efficace del sonoro e soprattutto della musica: è da notare la reiterata presenza del noto pezzo "La banda" di Mina, che, spesso distorto e introdotto opportunamente nei momenti di maggior tensione, riesce a concorrere ottimamente all'atmosfera di inquietudine del film.

Il finale potrà forse apparire poco credibile, ma nella sua essenza di iperbole mette un simbolico suggello all'atto di accusa verso il mondo televisivo che il film rappresenta: il mostro è proprio il tubo catodico, sembrano dirci Infascelli e Ammanniti, e quelli che gli girano intorno (o dentro) non sono che vittime, ormai impotenti, private della loro essenza o semplicemente troppo stanche e disilluse per reagirvi. E, considerata la sostanziale riuscita estetica e "di concetto" del film, si può sicuramente perdonare alla sceneggiatura qualche caduta di tono (specie nei dialoghi) o qualche caratterizzazione di personaggi non sempre riuscitissima (in particolare quello di Valerio Mastandrea).
Parlando di cast, oltre all'appena citato e comunque efficace Mastandrea, vanno ricordate le prove complessivamente buone di una sgradevole e insolita Francesca Neri, di una Margherita Buy convincente nel suo ruolo di donna stanca e provata, e di una Barbora Bobulova fragile ed efficace.

Complessivamente una prova riuscita, quindi, questo secondo film di Infascelli: un buon esempio di come in Italia si possa fare cinema di genere che, nonostante i modelli codificati e riconoscibili (qui il thriller americano) abbia una sua specificità culturale e risulti quindi distinguibile da essi. Uno stimolo, sicuramente, per chiunque, nel nostro paese, voglia imbarcarsi nella realizzazione di un cinema trascurato, bistrattato da ormai oltre una decade, ma di cui oggi più che mai, in un panorama così asfittico, c'è bisogno.

Movieplayer.it

3.0/5