Sono le coincidenze poco fortunate del cinema: in diverse occasioni, due pellicole dedicate allo stesso argomento o allo stesso personaggio arrivano in sala a breve o brevissima distanza l'una dall'altra. Per citare soltanto i casi più famosi, basti pensare a Le relazioni pericolose e Valmont, a Tombstone e Wyatt Earp, a Deep Impact e Armageddon, a Truman Capote - A sangue freddo e Infamous - Una pessima reputazione, a The Prestige e The Illusionist, a Marguerite e Florence. E in questi casi, a volte il successo di uno dei due film finisce per oscurare il relativo 'gemello'.
Accade così che, tra il febbraio e il marzo 2018, nelle sale britanniche esordiscano ben due pellicole entrambe incentrate sulla figura di Donald Crowhurst, imprenditore e navigatore britannico salito agli onori delle cronache fra il 1968 e il 1969 per aver intrapreso una solitaria regata intorno al mondo. E com'era prevedibile, tutta l'attenzione si è concentrata sul primo film ad essere approdato al cinema, The Mercy, in virtù di un protagonista di richiamo come Colin Firth, condannando il suo diretto concorrente, Crowhurst, distribuito fra l'altro anch'esso da StudioCanal, a un'uscita tecnica in sole due sale e a un prevedibile fiasco.
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La ballata del folle marinaio
Peccato che, stavolta, al flop del secondo titolo non abbia fatto da contraltare il successo di quello più 'blasonato': infatti The Mercy, che in Italia arriva come Il mistero di Donald C., non solo si è rivelato un mezzo tonfo commerciale in patria e altrove, ma costituisce una sostanziale delusione praticamente su tutti i livelli. Un netto passo falso, insomma, nella carriera dell'inglese James Marsh: un regista che, oltre all'Oscar nel 2008 per il bellissimo documentario Man on Wire, si era fatto apprezzare per opere quali The King (2005), l'episodio 1980 del thriller televisivo Red Riding (2009) e il lodevole dramma di spionaggio Doppio gioco (2012), prima di raccogliere consensi a iosa nel 2014 per il pregevole benché sopravvalutato La teoria del tutto.
E se in quel caso la declinazione abbastanza convenzionale dei canoni del biopic funzionava in maniera comunque più che discreta, non si può dire altrettanto dell'ultima fatica di Marsh. Il mistero di Donald C. vorrebbe porsi come il ritratto dell'ossessione di Donald Crowhurst, ruolo affidato a Colin Firth: un navigatore dilettante che, il 31 ottobre 1968, salpò dal porto di Teignmouth, nel Devon, per partecipare alla cosiddetta Golden Globe Race, una regata senza scalo intorno al mondo, sull'onda dell'entusiasmo per l'analoga impresa compiuta da Francis Chichester (che compare all'inizio del film, interpretato da Simon McBurney, come una sorta di modello d'ispirazione per Crowhurst). Ma l'ossessione di Crowhurst è affidata più alla voce del protagonista, e alle pagine del suo diario di bordo, che non al potere del linguaggio filmico: si pensi, per contrasto, a un film quale All Is Lost - Tutto è perduto di J.C. Chandor, che al contrario traeva la propria forza dal silenzio e dalle immagini.
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Il racconto di un'ossessione in un film scontato e mediocre
Il mistero di Donald C., invece, fa esattamente il contrario: anziché raccontare spiega, con un approccio didascalico e un accademismo di fondo che, in pratica, recuperano e ingigantiscono i limiti (assai più contenuti) del precedente La teoria del tutto. E così il viaggio del Donald Crowhurst di Colin Firth fatica a suscitare un reale senso di empatia o di angoscia, mentre gli sproloqui pseudo-mistici del suo diario (la "grazia" del titolo originale) non hanno nulla a che fare con la follia degli antieroi di Werner Herzog, ma spingono il film verso una pallida e poco sensata agiografia. Un discorso simile si potrebbe applicare all'altro binario narrativo della pellicola, quello ambientato in Inghilterra: Rodney Hallworth (David Thewlis), ingaggiato da Crowhurst come suo addetto alle pubbliche relazioni, è dipinto come lo stereotipo del reporter cinico e spregiudicato, mentre l'invettiva finale contro la speculazione mediatica lascia davvero il tempo che trova.
A uscirne in maniera più che dignitosa è, in pratica, solo Rachel Weisz, la cui intensità drammatica le permette di conferire qualche traccia di spessore alla figura di Clare, moglie di Crowhurst, per quanto la sceneggiatura di Scott Z. Burns non la aiuti di certo a rendere questa ennesima supporting wife un personaggio davvero profondo o compiuto. Al punto che perfino la sua scena madre, nell'epilogo, risulta come l'ennesimo espediente didattico all'interno di un film piatto e superficiale, che disperde lungo la strada ogni motivo d'interesse.
Movieplayer.it
2.0/5