Se Apocalypse Now è rappresentazione cinematografica segnata dall'immergersi in profondità dentro alcuni temi universali dell'uomo, e dal farlo con l'ambizione di giungere ad affermare punti di vista concettuali da cui quegli stessi temi possono essere osservati con maggiore pregnanza ed estrema chiarezza, va da sé che, all'interno di un'operazione a tal punto imponente, anche il linguaggio e lo stile del Cinema hanno subito un processo di messa in discussione, al fine di scoprire e inventare nuove modalità di comunicazione, più pronte ad esprimere l'entità incommensurabile di riflessioni, tracce e relazioni contenute nel progetto coppoliano. In tal senso, il capolavoro del cineasta di Detroit è pietra miliare del cinema contemporaneo, non solo per il suo senso e i suoi significati ma anche, se non soprattutto, per il lavoro di profonda rimodellazione e rifondazione dello spettacolo filmico e, quindi, del complesso dei suoi significanti.
A tal proposito, è necessario affermare che l'opera coppoliana esprime un'idea di Cinema che certo non è schiettamente originale eppur tuttavia ha trovato, proprio in Apocalypse Now, una delle espressioni di massimo splendore: il progetto è quello del Cinema Totale e, concettualmente, è vecchio quasi come la Settima Arte. Nondimeno, negli artifizi retorici e spettacolari messi in campo da Coppola, si trova la messa in atto di molte intenzioni che, per un motivo o per l'altro, nell'arco della Storia del Cinema, erano rimaste mera potenza. Per capire meglio, osserviamo il film di Coppola soprattutto nel senso della quantità e della densità dei significanti posti a lavorare contemporaneamente quasi in ogni inquadratura: e scopriamo, senza difficoltà, che l'apocalisse coppoliana è raccontata secondo il criterio dell'affollamento a prima vista caotico dei segni e dei mezzi espressivi. Se, a proposito di Apocalypse Now, si può legittimamente parlare di quel Cinema Totale sopra menzionato, la ragione sta proprio nel fatto che, sullo schermo, le zone d'espressione tendono a cumularsi, in un'unione che appare inscindibile ed è frutto, in tutta evidenza, di un sapiente dosaggio, conseguito in sala di montaggio e non solo, d'una vasta gamma di elementi.
Ragionando per esempi, e parlando, in primo luogo, delle scelte compiute sul set, la logica dell'accumulo fa sì che numerose inquadrature del film organizzino, quasi in ossequio alla lezione di Altman, uno spazio suddiviso su molteplici piani prospettici e di distanza, in polemica non dichiarata con i princìpi della prospettiva cinquecentesca, a lungo venerata anche dal Cinema, specie d'anteguerra: così, molti quadri del film, presentano spazi al cui interno le separazioni tra i piani si moltiplicano, producendo, altresì, il proliferare dei punti di fuga; quasi nessuna inquadratura può essere definita dalla descrizione di un unico piano spaziale ma, al contrario, quasi sempre - eccetto forse per i piani ravvicinati dei volti -, totale e figura intera, campo lungo e piano americano, insieme e particolare, collaborano, con eguale pregnanza di significato, a comporre il quadro specifico. ? uno spazio immenso, quasi illimitato, quello che si presenta davanti alla macchina da presa di Coppola, al punto che, molto spesso, la nozione stessa di fuori campo finisce col perdere un po' di quella centralità che, da sempre, è tratto distintivo del Cinema.
Si pensi, poi, all'uso oltremodo sapiente delle luci - tecnica poetica di certo non nuova, che Coppola, però, soprattutto nella parte finale del film, quella dell'incontro/scontro tra Willard e Kurtz, porta davvero all'estreme conseguenze: nell'oscurità talmente piovigginosa da sembrare assorbire qualsiasi entità che si muova nel regno pagano del colonnello, quella luce di matrice espressionistica che, oscillando in continuazione, svela e maschera contemporaneamente, moltiplica a dismisura i piani dello spazio, rendendoli indiscernibili, assurgendo, così, a strumento metaforico che permette la comprensione nel momento stesso in cui la nega. Basti ricordare, a mo' d'esempio, come la luce faccia sempre vedere, e contemporaneamente nasconda nell'oscurità, il primo piano di Kurtz, in funzione dunque non solo estetica ma simbolica e persino diegetica, laddove Kurtz è raccontato, fin dall'inizio, come un personaggio in buona parte insondabile e non comprensibile.
Il gioco dell'accumulo dei significanti, però, si esplica soprattutto in fase di montaggio. In un passo del diario della moglie di Coppola, dedicato all'odissea produttiva di Apocalypse Now, si legge: 'Ieri sono salita nell'ufficio di Francis per qualche minuto. Ero seduta alla nuova moviola e lui faceva passare la sequenza di apertura di Apocalypse Now. C'erano immagini su tre videoschermi che lui dissolveva insieme sul monitor principale. Era stupefacente. Tre sovrapposizioni di immagini. Era roba da marziani. Francis dice che questo cambia completamente il modo di organizzare un film'. E, difatti, è proprio al tavolo di montaggio che Coppola produce i suoi effetti più stupefacenti e innovativi. Qua, in primo luogo, può dare profondità al sonoro, moltiplicando all'infinito le incisioni audio, con la voce off di Willard che si sovrappone ai rumori dell'ambiente, alle grida della guerra e agli strepiti della natura, agli scoppi dei bombardamenti e al commento musicale, che, in questo film, si pone sempre come significativo e pertinente. In tal senso, la scelta di alcune tra le opere più belle ed inquietanti della musica rock degli anni Sessanta, talvolta a commentare e talatra a riempire le azioni del film, rappresenta, ancor oggi, uno degli elementi di massima forza della pellicola: Satisfaction dei Rolling Stones è piazzata quasi ad inizio film, ed è musica di scena, perché proviene dal piccolo transistor del giovane Clean e rappresenta un momento di tragica spensieratezza dei personaggi che non sanno di andare verso la fine del mondo; la chitarra distorta di Jimi Hendrix, ascoltata a tutto volume dai soldati allucinati che fanno guerra di trincea sul ponte di Do Lang, è, di fatto, l'unico intervento musicale che può reclamare diritto di cittadinanza nel 'buco del culo del mondo'; e The End, dei Doors, che apre e chiude l'eopopea apocalittica, è essa stessa apocalisse, nel ritmo e nel suono così come nelle parole di Jim Morrison - 'Questa è la fine / magnifico amico / Questa è la fine / mio unico amico, la fine / dei nostri piani elaborati, la fine / di ogni cosa stabilita, la fine / né salvezza o sorpresa, la fine / non guarderò nei tuoi occhi... mai più / puoi immaginarti come sarà / così senza limiti e libero' - questi versi non sono forse l'epigrafe perfetta a commento della morte del colonnello Kurtz? Senza dimenticare l'attacco della cavalleria dell'aria sull'armonia wagneriana della Cavalcata delle Valchirie, momento di spettacolo tra i più alti di tutto il cinema contemporaneo.
Infine, è necessario ricordare l'uso incisivo di una figura retorica di montaggio che, prima di Apocalypse Now, esisteva solo nell'alveo della pura sperimentazione e che, ancora una volta, segna, nell'ambito dell'opera coppoliana, l'emergenza della necessità dell'accumulo: parliamo della dissolvenza multipla - l'artificio ricordato dalla moglie di Coppola - che, insieme a The End, è la cifra stilistica più cospicua posta sia all'inizio che alla fine del film. In entrambe le sequenze, le immagini dissolvono e emergono all'interno della stessa inquadratura non più come semplici transizioni ma come elementi non congrui nello spazio e nel tempo; nella sequenza iniziale, per esempio, le immagini del corpo nudo di Willard si posano e svaniscono dentro inquadrature che contengono, al contempo, l'emersione e la scomparsa di foreste incendiate dal napalm, di elicotteri in volo e, persino - in un'anticipazione che confonde i tempi fino a declinarli in un punto che è eterno presente - delle statue in pietra che poi riconosceremo essere i totem che circondano il tempio-dimora di Kurtz. Di nuovo, dunque, ecco il presentarsi di un processo di accatastamento dei segni, secondo una logica che, infine, sembra voler obbedire, contemporaneamente, ai principi opposti della sintesi e della ridondanza, dentro una rappresentazione filmica non più lineare, che esprima in ogni parte di sé - in ogni inquadratura - la metonimia inesausta di quel tutto che è il film.