Il coraggio della semplicità
Dopo aver seguito personaggi che inseguivano gatti tra le strade di Parigi e dopo aver raccontato quanto accade nell'appartamento di un gruppo di studenti Erasmus in quel di Barcellona, il francese Cédric Klapisch decide di cambiare nettamente stile e toni, realizzando un personale e sentito omaggio ad uno dei più importanti e fondanti generi del cinema transalpino: il polar.
Autoreverse racconta la storia di Caty, ragazza della provincia francese trasferitasi nella capitale per lavorare - con scarso successo - come operatrice televisiva. In maniera del tutto fortuita e casuale, Caty entra in contatto con Jean, un rapinatore, personaggio carismatico e amante della bella vita, che le chiede di filmare un colpo suo e della sua banda in cambio di denaro. Lei accetta e dopo quel primo contatto troverà impossibile troncare i rapporti con Jean e i suoi, un gruppo di personaggi picareschi e affascinanti. Si abituerà così a uno stile di vita lussuoso finanziato da colpi di vario genere, effettuati prima con loro, poi - quando la banda sembra sciogliersi - in solitaria. Fino ad un ultimo grande colpo finale che riunirà tutti, con esiti tragici.
Klapish - giocando con intelligenza sulle possibili aspettative dello spettatore create dal suo cinema precedente - inizia il suo film raccontandolo come una commedia (dai risvolti leggermente romantici persino), lasciando che nasca in chi guarda una malcelata simpatia nei confronti di queste simpatiche canaglie di stampo quasi belmondiano (nel senso di Jean-Paul Belmondo), mostrandone solo l'aspetto più seducente e spensierato.
Lentamente però, in maniera estremamente graduale ma comunque inesorabile, il regista muta il tono del film e del racconto: emergono le difficoltà, i conflitti nella banda, emerge il passato difficile dei protagonisti, che hanno sì conosciuto la bella vita ma anche la vita in cella. I rapporti si fanno tesi, le incomprensioni più aspre, e dalla spensieratezza del gruppo la messa a fuoco passa sulle difficoltà e sui problemi dei singoli, sui loro rispettivi egoismi, e il tutto volge rapidamente verso un finale pessimista, cupo, spietato come quelli dei polizieschi francesi (ma soprattutto americani, tirati spesso in ballo) di una volta.
Complimenti quindi a Klapish, un regista che ha avuto il coraggio di restituire al polar tutta la sua dignità, con un film che è dominato non da eclatanti movimenti di macchina né da arditi incroci narrativi, ma da una trama solida e legata alle regole del genere, da un gruppo di ottimi interpreti funzionali ai loro ruoli e mai eccessivi, e soprattutto da una regia che si mette al servizio loro e delle vicende che li vedono protagonisti, priva dell'ansia di dover innovare o stupire ad ogni inquadratura.
Ed in questo senso (ma anche considerando la rilettura in chiave contemporanea e "multietnica" del polar stesso, e un'ottima colonna sonora sospesa tra le atmosfere fumose del jazz e quelle più frenetiche dell'elettronica moderna) non ci sembra azzardato il paragone con un altro bel film che di recente ha rivisitato e omaggiato il poliziesco alla francese, le sue atmosfere e le sue tematiche come il Triplo gioco di Neil Jordan. Ma se il regista irlandese regalava al suo protagonista la possibilità di un futuro, garantita da un finale aperto e positivo, nel suo film Klapisch compie come detto una scelta di segno opposto ma ugualmente logica ed efficace, mettendo in scena con freddo realismo un finale coraggiosamente sgradevole e crudele, che lascia con un piacevole amaro in bocca all'uscita dalla sala.
In tempi come questi, dove l'esagerazione e la plasticosità dei prodotti sembra essere diventata la regola, dove i generi vengono stravolti senza il minimo rispetto come nel Van Helsing di Stephen Sommers, Autoreverse è una boccata d'aria fresca, un piccolo, semplice film da non perdere.