Recensione Molto forte, incredibilmente vicino (2011)

A dispetto della creatività sbalorditiva del romanzo di Foer, Stephen Daldry sceglie una via più sicura, eppure questo non penalizza la fruizione di una storia che trova la sua forza nei legami profondi che si instaurano tra i personaggi.

Il cielo sopra New York

Oskar Schell ha 9 anni quando suo padre Thomas (Tom Hanks) muore nel crollo delle Torri Gemelle. Da quel giorno la vita del ragazzino cambia repentinamente. Senza la presenza dell'adorato papà, con cui si divertiva a risolvere complessi rompicapo, il peso del mondo sembra ricadere tutto sulle sue spalle e nulla possono fare la madre Linda (Sandra Bullock) e la nonna (Zoe Caldwell), che pur non fanno mancare il loro amore a quel bambino singolare che legge Stephen Hawking, inventa arnesi prodigiosi ed è angustiato da mille fobie. L'unico modo che Oskar ha per dare un senso al dolore è pensare che faccia parte di un grande gioco organizzato da Thomas in persona per sfidarlo a trovare un prezioso tesoro. L'occasione arriva un anno dopo la scomparsa del padre, quando il piccolo scopre nell'armadio del genitore un vaso blu contenente una misteriosa chiave, nascosta in una bustina gialla. Sopra c'è scritto un nome, Black. Se quella chiave esiste, allora esiste anche la sua serratura, un piccolo pezzo di ferro che una volta aperto potrebbe rivelare qualcosa di speciale. Con la testardaggine dei coraggiosi, Oskar decide di incontrare tutti i 472 signori Black di New York per aiutarlo a risolvere il mistero. Suo compagno di avventure sarà l'uomo che da qualche tempo vive in affitto in una stanza della casa di sua nonna, un anziano tedesco che si esprime solo scrivendo su dei foglietti di carta.


Raccontata così la trama di Molto forte, incredibilmente vicino, trasposizione cinematografica a firma di Stephen Daldry dell'omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer, può sembrare una favola, un racconto a lieto fine sulla trasformazione di un lutto catastrofico, vissuto nel momento più delicato della vita di un bambino. A dispetto della semplicità di fondo, però, la storia, orchestrata mirabilmente da Foer (suo il romanzo Ogni cosa è illuminata, spunto per il debutto registico di Liev Schreiber) e adattata altrettanto bene per il grande schermo da Eric Roth, è un complesso intreccio di fili, in cui ogni personaggio prende corpo nei fantasmagorici pensieri del protagonista, il vertice di una matassa da cui si dipanano tanti canovacci.

Daldry sceglie di dare spazio ai volti dei suoi attori, soffermandosi sui loro occhi, scrutati con dettagliati primi piani, e li inserisce in una città sempre splendente nonostante le ferite della recente storia, regalandoci degli scorci se non proprio inediti, almeno molto particolari, con angoli di ripresa a volte temerari. Deve essere per forza speciale il palcoscenico in cui si avvicendano Oskar e i suoi compagni di viaggio, un gruppo di persone che finisce per diventare un'unica grande famiglia; sensazione che forse è difficile comprendere se non si è vissuta appieno quella grande catastrofe collettiva che è stata l'Undici Settembre, una tragedia talmente epocale da far diventare tutti i newyorchesi parte di una stessa collettività, a dispetto di ogni differenza sociale o etnica. Il peregrinare di Oskar, l'intenso Thomas Horn, tra i 5 distretti della Grande Mela svela un mondo sconosciuto che ha il gusto dolce della fiaba, un luogo che vive delle migliaia di storie dei suoi abitanti, familiare e scomodo allo stesso tempo. E se il piccolo va in cerca di un segno che gli faccia capire che suo padre è ancora lì da qualche parte, il suo sodale muto, l'eccezionale Max Von Sydow, candidato all'Oscar per questo ruolo, aspira a ritrovare un figlio che ha avuto paura di conoscere. I due sanno quindi di essere più vicini di quanto pensino, come testimonia la bellissima sequenza della guerra degli ossimori nella metropolitana.
A dispetto della creatività sbalorditiva di Foer, Daldry sceglie una via più sicura, linguisticamente più canonica, meno sconvolgente di quanto siano invece le pagine del libro, dominate dai pensieri ossessivi di Oskar, eppure questo non penalizza la fruizione di una storia che trova la sua forza nelle architetture affettive, nei legami profondi che si instaurano tra i personaggi, nella mescolanza di sentimenti che si affastellano nella mente del protagonista (rabbia, speranza, paura, dolore, senso di colpa), nella minuziosa ricostruzione di un mistero che tale non è. Ogni pedina ha un valore, da quelle fondamentali per la risoluzione dell'enigma, come la coppia dei coniugi interpretati da Viola Davis e Jeffrey Wright, a quelle 'innocue'; così come un valore profondo hanno le cose, reperti di vite passate, conforto nei momenti di sofferenza. Ci troviamo di fronte ad un film che non si distacca da certi canoni spettacolari, ma che riesce a mantenere intatto il cuore del romanzo, un toccante apologo sulla separazione, senza però proporre un calco arido dell'opera letteraria. Ed è un grande merito che va dato al regista inglese, ottimo amministratore di un materiale tanto articolato e ricco.

Movieplayer.it

3.0/5