Di diavoli, di fango e di chitarre. All'orizzonte, le piantagioni di cotone si perdono a vista d'occhio, sovrastate da nuvole bianche in perpetua fuga (e che occhio dietro la fotografia di Autumn Cheyenne Durald Arkapaw!). Al centro della scena, quegli incroci tutti uguali, senza punti di riferimento. Intermezzi, tra un campo e l'altro. Polvere, cotone, e ancora polvere. Leggenda vuole che lì, in un crocevia del Mississippi, chissà dove e chissà quando, Robert Johnson vendette l'anima al demonio per diventare il più grande chitarrista della storia.

Crederci o no, poco importa. Legenda, mito, vociare popolare, folklore, ossessione. Potremmo quindi dire che non c'è nulla di più cinematografico del delta del Mississippi, e non c'è nulla di più immaginifico del blues. Ryan Coogler lo sa bene e, dopo Creed e Black Panther, innerva di mitologia una concretezza inquieta, firmando il suo titolo forse più ambizioso, e quindi quello più rischioso: I Peccatori.
Girato su pellicola da 65mm, alternando diversi aspect ratio, il film è, nemmeno a dirlo, estremamente cinematografico. Per storia, personaggi, struttura. Un enorme (e personale) giocattolo che Coogler costruisce seguendo una doppia strada (dobbiamo dirlo, molto originale), e quindi una doppia lettura: horror, certo, ma anche storia di fratellanza, di redenzione, di libertà artistica, oltre le leggi imposte (dai bianchi) e oltre le leggi imposte dalla religione.
I peccatori: Michael B. Jordan si sdoppia
Non poteva essere altrimenti, e I Peccatori si apre imponendo allo spettatore la sua metrica principale: la musica. Ryan Coogler parte dalla colonna sonora di Ludwig Göransson per adattare interpreti, sceneggiatura e paesaggi. Preparatevi: lo score del compositore svedese è pazzesco. Un crescendo di note blues, le corde di una chitarra (maledetta?) che vibrano e riempiono lo spazio dello schermo. In scena, i protagonisti: i gemelli Smoke e Stack, interpretati con bravura da un doppio Michael B. Jordan. Sono appena tornati da Chicago, dove hanno lavorato per un certo Al Capone.

Ma il Mississipi degli anni Trenta non è mica liberale tanto quanto la città dell'Illinois. Ci sono le leggi Jim Crow, c'è il KKK, c'è la segregazione. Arrivati in città con le tasche piene di soldi, i gemelli mettono in piedi un juke joint - raccordo di musica, ballo e socialità afroamericana - coinvolgendo il cugino Sammie Moore (Miles Caton) con il dono per la musica (nonostante un padre pastore poco accondiscendente verso "i suoni del diavolo"). Ed è proprio Sammie che si prenderà la scena durante la serata inaugurale (in una scena che vale la visione del film). Tuttavia, dall'ombra escono forze oscure e ancestrali, decise a divorare qualsiasi cosa.
Diavoli, chitarre e il Delta Blues
Non c'è dubbio che, anche solo partendo dall'idea, I Peccatori sia un buon film. Certo è, per restare in tema di vampiri, sembra che manchi il morso definitivo, o il colpo della folgorazione, quello mortale (in senso figurativo, ovvio), che intravediamo nei 137 minuti (tanto che, a più riprese, sembra quasi che il film non parta mai davvero). Una durata importante, che tende ad allungarsi - per volere dell'autore - seguendo quasi pedissequamente la macchina a mano del regista, muovendo la sceneggiatura da punto all'altro, raccordando scene, dialoghi e svolte. Letteralmente, spostando la sceneggiatura dal tramonto all'alba.

Del resto, se si parla di vampiri, i richiami al cult di Robert Rodriguez sono palesi, così com'è palese il debito - confermato dallo stesso Coogler - verso Carpenter o lo stesso Rodriguez di The Faculty. C'è un'immersività capace di essere estremamente stimolante, affascinante nel suo essere sudata, sexy, magica e incredibilmente ritmata. Sotto la coltre da horror soprannaturale con occhiata al misticismo e all'hoodoo - che esplode negli ultimi quaranta minuti, anticipando un contro-finale un filo accessorio - Coogler punta a sintetizzare ed enfatizzare il concetto di comunità, resistente verso quella minaccia divisiva rappresentata dalla metafora, sempre efficace, del vampiro.
È qui l'anima de I Peccatori: oltre l'azione e il sangue (e non manca la mattanza), Coogler utilizza il juke joint - quasi fosse il palco di uno spettacolo teatrale - come baluardo contro l'oscurità, e suonando quella musica blues capace di affondare le proprie radici tanto nel dolore quanto nella speranza. Un giro di note e una voce che gracchia, riecheggiando e resistendo, sfidando le tenebre in nome di un'identità impossibile da scalfire.
Conclusioni
Ryan Coogler con I Peccatori rivede il Mississippi degli anni '30, un luogo intriso di leggende blues come quella di Robert Johnson. Estremamente cinematografico (girato il pellicola), il film intreccia horror e temi di fratellanza, redenzione e libertà, in un contesto di grande fascinazione. Nonostante una certa lunghezza, e nonostante la sensazione latente che il film non inizi mai davvero, la struttura è immersiva e ritmata, utilizzando la musica blues come simbolo di resistenza e identità, focalizzandosi sul concetto di comunità e identità.
Perché ci piace
- La regia di Ryan Coogler.
- Il blues, chiaramente.
- La sequenza che apre l'ultima parte: ritmo e musica travolgenti.
Cosa non va
- La durata.
- E la sensazione che manchi comunque qualcosa.