Alla conferenza stampa seguita alla presentazione del nuovo film da lui interpretato, Oceano di fuoco - Hidalgo, un Viggo Mortensen particolarmente loquace ha sviscerato sia i vari aspetti del film che gli argomenti ad esso collaterali, spaziando dall'analisi del personaggio (reale) di Frank T. Hopkins al concetto di rispetto per i cavalli che è alla base del film, dalle vere o presunte implicazioni politiche della pellicola all'attuale situazione internazionale.
Mortensen, lei, oltre che un attore, è anche un poeta e un fotografo. Tra le sue foto, ce ne sono alcune molto affascinanti, apparse su una rivista americana, che avevano come soggetto le danze degli indiani. Cosa può dirci rispetto a questo lavoro?
Quelle foto le ho fatte per una mostra ed un libro, e sono "periferiche" alle riprese, nel senso che non c'entrano con il film. Le ho fatte semplicemente perché amo fare fotografie.
Lei interpreta spesso ruoli molto fisici, come quelli in Soldato Jane, Il signore degli anelli e, appunto, Hidalgo; ruoli in cui generalmente parla poco. Come mai questa predilezione? E' una sua scelta?
Io credo nel detto "a volte meno è più", anche se in effetti qualche volta ho avuto meno battute di quelle che avrei voluto. Nei film, come nelle poesie, io cerco di raggiungere l'essenziale: è capitato che andassi da un regista e gli dicessi "Questa scena può funzionare anche con meno battute". Questo perché il cinema è sostanzialmente un mezzo visivo. In Hidalgo, ad esempio, c'è un attore come Omar Sharif che fa moltissimo utilizzando poche parole: è un attore dal talento straordinario, in quanto ha la capacità di rilassarsi, "assorbire" dal luogo in cui si trova per interagire con chi gli sta accanto. E' una qualità grandissima, spesso sottovalutata: è più facile infatti dare premi e fare apprezzamenti su forme di recitazione più plateali, che prevedono urla, pianti e gente che si strappa i capelli. Quella di Omar è invece "economia": lui è capace di fare moltissimo con poco, e riesce quasi a far sembrare la recitazione una cosa semplice.
Così come Humphrey Bogart, lei ha cominciato la sua carriera con ruoli di villain per poi passare a personaggi "buoni". Tornerà mai ad un ruolo come quelli che hanno caratterizzato i suoi inizi?
Io non faccio progetti a lungo termine. Se valutassi il mio lavoro in termini di fama, soldi o successo, forse farei dei piani, avrei una strategia: ma non è questo quello che mi interessa, e lo stesso approccio lo mantengo con la pittura, la poesia e tutte le attività a cui mi dedico. Quello che mi interessa è il "qui e adesso", concentrarmi sul momento che sto vivendo: è questo il modo di essere che mi fa stare a mio agio.
Sia ne Il signore degli anelli che in quest'ultimo film, lei interpreta un eroe in fuga da sé stesso che poi raggiunge una sorta di redenzione finale. Cosa le piace del lato eroico di questi personaggi?
Quando si interpretano storie ambientate in altri tempi, in cui i pericoli affrontati dai personaggi vengono esagerati, si possono imparare tante cose su sé stessi e sul tempo che si sta vivendo. L'anno scorso ci sono stati piccoli film, come The Station Agent (ancora inedito in Italia, ndr) e La ragazza delle balene, che raccontavano anch'essi, a loro modo, storie epiche e personaggi eroici. Io penso che tutti gli eroi abbiano un comune denominatore, che è quello di dire sempre la verità, grande o piccola che essa sia, bella o brutta, comoda o scomoda. La verità va sempre detta, anche quando questo implica dei costi personali. E' questo che io ammiro in questi personaggi.
A quanto ci risulta, Hidalgo è ispirato ad una storia vera. Quanto c'è di vero e quanto di "leggenda" nel film?
Riguardo a questo, quello che forse potrei dire è: "La storia è ispirata a un fatto vero, ma è comunque narrata bene, per cui chi se ne frega di quanto rispecchi effettivamente la realtà". In Hidalgo la storia viene narrata un po' alla vecchia maniera hollywoodiana, con degli elementi che sono tuttavia leggermente "sovversivi". Uno di questi elementi è la rappresentazione della riserva indiana, un altro è la presenza stessa di un americano che va in un paese del Terzo Mondo non ponendosi in modo arrogante, come colonizzatore, ma cercando di apprendere, con la mente aperta nei confronti della cultura con cui interagisce. Potrei dire "Chi se ne importa della veridicità", quindi. Solo che a me importa. Io ho imparato moltissimo durante le riprese di questo film, e non solo dai libri che ho letto. Dai libri ho appreso molto su Frank T. Hopkins, sul suo modo di allevare ed allenare i cavalli, e sul suo trattarli sempre con gentilezza; ma la maggior parte di ciò che ho appreso mi è derivata dalla tradizione orale. Nelle riserve indiane, ad esempio, ho ascoltato storie provenienti da famiglie diverse, senza collegamenti tra di loro, che tuttavia narravano gli stessi eventi, con poche variazioni. Verso lo stesso Hopkins gli indiani avevano un atteggiamento positivo, e ciò è curioso, se ci si pensa: lui era chiaramente un anglosassone, eppure era come se quelle persone sentissero qualcosa che lo legava a loro, in qualche modo che non si può descrivere. Ecco, su questi elementi mi sono basato moltissimo per il mio lavoro sul personaggio.
Mi sono poi arrabbiato molto per ciò che hanno scritto alcuni giornalisti del mondo arabo, che hanno liquidato la storia di Hopkins e il film intero come "propaganda pro-Bush". Queste sono semplicemente delle stupidaggini, le riprese sono iniziate due anni prima dell'11 settembre e sono finite un anno prima dell'inizio della guerra. Ritengo offensivo che alcune persone abbiano tentato di screditare la bontà della storia e di tutto il nostro lavoro; non sono affatto convinto della loro buona fede, sinceramente.
Le riprese sono finite prima dell'inizio del conflitto in Irak, è vero, ma in quel momento la "guerra" con il mondo arabo era già in atto, e ora lo è più che mai. Come si è sentito, lei, da americano di origini europee, sul set, rispetto a questa situazione, e come si sente adesso?
La "guerra" con l'Irak in particolare va avanti in realtà già da tredici anni. Già nell'autunno del 2002, poi, era evidente che il governo americano avesse preso una decisione, a prescindere da ciò che potevano pensare le Nazioni Unite o gli stessi cittadini americani. L'azione era già stata pianificata e si sarebbe andati avanti con questo progetto, così come si va avanti con un film quando i finanziamenti sono stati già stanziati. Io comunque ho avuto modo di parlare con i marocchini, sul set, non solo con gli attori ma con tanta altra gente, e quello che è emerso è che tutti vedono gli Stati Uniti come un paese da cui arrivano stimoli interessanti, compresa la forma di governo: l'idea della democrazia rappresentativa piace a queste persone, anche se vedono dei limiti nel mancato controllo diretto da parte dei cittadini nei confronti di chi governa. Nessuna delle persone con le quali ho parlato, comunque, ha mai identificato la politica del governo americano con i cittadini americani; questo mi sembra un fatto estremamente interessante. Sono contento, comunque, di come il regista ha gestito le implicazioni che un film del genere poteva avere sul periodo storico attuale: se il modo di affrontare queste implicazioni non mi fosse piaciuto, non avrei partecipato al film. Anche i marocchini e gli indiani che erano nel cast, dopo un'iniziale diffidenza, hanno capito la bontà dell'impostazione che volevamo dare al lavoro, e così sono stati più felici di parteciparvi.
Cosa può dirci della comunanza, che emerge dal film, tra nativi americani e arabi, in particolare riguardo alla cura e al rispetto per i cavalli? E' una similiarità che ha qualche fondamento nella realtà?
Sul set ho potuto sperimentare che i cowboy, gli indiani e gli arabi sono accomunati dal medesimo rispetto per i cavalli: è un tratto che unisce profondamente queste tre culture.
Un'ultima parola, comunque, devo spenderla per il cavallo T.J.: lui "interpreta" il personaggio che dà il titolo al film, ed è stato meraviglioso, uno degli elementi che hanno contribuito in modo fondamentale alla riuscita del film.