Con un gioco di parole, che coincide sia con l'ambientazione principale in cui si svolgono i 90 minuti dell'opera che con l'eccelsa qualità tecnica e cinematografica, si potrebbe dire che Gravity sia un film spaziale. In realtà, è un film terrestre. Lo dichiara subito, con l'immagine del pianeta, la prima che vediamo subito dopo il titolo, ma lo conferma per tutta la durata. Uscito in sala originariamente in 3D, uno dei pochi film ad essere riuscito a saper valorizzare la stereoscopia e a trovarne il significato aggiunto, Gravity riuscì a vincere 7 premi Oscar mancando tuttavia la statuetta più ambita, quella per il Miglior Film che andò a 12 anni schiavo di Steve McQueen. Forse a causa di un ridimensionamento del film, che viene perlopiù ricordato solo come una dimostrazione di talento e bravura da parte degli attori protagonisti (Sandra Bullock regge tutto il film da sola), dell'inventiva del direttore della fotografia Emmanuel Lubezki (che riuscirà a vincere il primo dei tre Oscar consecutivi) e delle idee visive del regista (anche lui a premi). Insomma, il film di Alfonso Cuarón sembra uno showreel di effetti speciali e di qualità tecnica, ma in realtà nasconde molto di più. Grazie alla possibilità di poterlo rivedere sul catalogo di Infinity, proviamo a capire se, in quell'anno, Gravity avrebbe meritato l'Oscar per il Miglior Film.
Vite impossibili
"La vita nello spazio è impossibile": è con questa didascalia che lo spettatore inizia la visione di Gravity. Una didascalia che presenta la situazione e denota subito che stiamo per assistere a un film di sopravvivenza. La dottoressa Ryan Stone deve riuscire, dopo un evento catastrofico che distruggerà lo Space Shuttle (una pioggia di detriti accidentale) a ritornare sana e salva sul pianeta Terra, lì dove invece la vita è possibile. E dove proprio la vita è venuta a mancare. Perché Ryan Stone si trova nello spazio non solo per la scienza, ma soprattutto per ritrovare un senso alla sua esistenza. La Terra, il pianeta vivente, viene vista da un'altra prospettiva, da dove il nero infinito del nulla circonda le persone. Che è il nero che porta dentro di sé la protagonista, incapace di superare la morte di sua figlia. Come quello dello spazio, si tratta di un dolore infinito, vicino alla depressione. Chiusa nella tuta spaziale, con l'ossigeno che lentamente viene sempre meno, la dottoressa Stone sarà costretta a vivere un'odissea che la porterà a dover scegliere se la vita impossibile è quella nello spazio (dell'universo) o quella nella Terra (con il suo vuoto emotivo). L'istinto di sopravvivenza avrà la meglio, ma sarà una lunga gestazione, composta da pericoli e insidie imprevedibili che metteranno Ryan Stone in difficoltà. Per farle capire che il dolore e la sofferenza è parte integrante dell'esistenza e che la vita, nonostante questo, vale la pena di essere vissuta.
Ritrovarsi
Persa nello spazio, da sola, e perduta nello spirito. Isolata e smarrita, Stone inizia una lunga lotta per ritornare a casa e non per fermare il corso degli eventi. La ciclica pioggia di detriti che, a distanza regolare di tempo, ritorna a colpire è metafora delle avversità della vita che non si possono evitare. Così, la volontà di Stone di estraniarsi dal dolore avvenuto sul pianeta e allontanarsi sempre di più non trova una vera e propria risoluzione. Portatrice lei stessa di una forma di esistenza impossibile nello spazio è lei l'elemento di contro-natura. Più Stone cerca di sopravvivere, più in realtà inizia un percorso di rinascita, nel vero senso di "seconda nascita". Chiara l'immagine in cui entra nel Sojuz e si libera della tuta. Fluttua raggomitolata come se fosse un corpo in gestazione nell'utero, con tanto di "cordoni ombelicali" che la legano a ciò che esiste di umano, seppur solo materico e tecnologico, nello spazio vuoto. È una seconda nascita che lo spettatore assiste quasi in presa diretta (per quanto non sia così, il tempo del racconto sembra coincidere con le azioni e la macchina da presa segue incostantemente la protagonista), come se non dovesse perdersi un solo secondo della lunga gestazione. Un elemento che si ritrova nel film di Cuarón precedente, I figli degli uomini, e che ritroveremo nel film seguente, Roma. In tutti e tre i film la nascita ha un ruolo predominante e lo spettatore è costretto a seguire i personaggi mentre sono intenti a dare alla luce una nuova persona. Accadrà lo stesso in Gravity, anche se nella messa in scena il tutto avrà una luce più metaforica e visiva, più poetica (e potremmo dire superiore, perché meno scontata). L'epifania avviene a un passo dalla morte. La dottoressa Stone decide di suicidarsi, ma un'allucinazione del comandante Kowalsky (George Clooney) le farà cambiare idea. In questa scena, che avviene subito dopo una comunicazione a distanza con un radioamatore inuit, Stone si convince definitivamente a ritornare sul pianeta. A ritrovare la vita e sé stessa.
Venire al mondo
"Vuoi tornare a casa o vuoi restare qui?": è questa la domanda che Matt Kowalski, in realtà proiezione dello spirito di Ryan, chiede. La domanda decisiva che non ammette dubbi o incertezze: o si muore, lasciandocisi abbandonare nel nulla del cupo spazio infinito, oppure si vive, affrontando anche tutte le difficoltà che la vita porta con sé. La tragedia della perdita della figlia è un lutto che va superato anche se impossibile da annullare, come i detriti del satellite che continueranno a girare in tondo e colpire. Ecco che Ryan, pronta a ritornare sulla Terra, si sente "non più senza meta". La nostra eroina riesce ad entrare nella stazione cinese Shenzhou, pronta per l'atterraggio con una consapevolezza importante: si rende conto che tutto quello che è accaduto (o che accadrà) non è colpa di nessuno. "Sono pronta": è con questo pensiero che inizia la fase finale della storia, che Cuarón racconta con un'idea visiva potentissima. L'atterraggio viene messo in scena come una vera e propria fecondazione, i detriti della nave spaziale come spermatozoi pronti a entrare nell'ovulo della Madre Terra. Alla fine solo uno riuscirà a fecondare, simboleggiando tutte le fasi della vita sul pianeta. Stone cade in acqua, nuota, ritorna sulla riva come un anfibio, lentamente si alza in piedi, sempre più dritta: è la nascita dell'uomo, che avviene addirittura oltre l'"enorme passo per l'umanità" dell'esplorazione spaziale. Intorno a lei, la luce del giorno. Ryan Stone (dal cognome che richiama il peso delle pietre e, di conseguenza, di essere partecipe della forza di gravità e arrivare al suolo) è pronta a vivere la vita, ha superato il lutto e mette i piedi per terra: un modo come un altro non solo per sottolineare un terreno tangibile sotto di sé, che permette di mantenerla in equilibrio, ma anche una figura retorica per evidenziare la sua accettazione di realtà. Non vive più in una dimensione-altra perfetta, ora è capace di affrontare gli ostacoli e le tragedie che, nella vita, semplicemente, accadono.
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Meritava il Miglior Film?
Era l'annata, tra gli altri, di The Wolf of Wall Street, di Nebraska, di Dallas Buyers Club, di Lei e di 12 anni schiavo, il film che poi vinse il premio per Miglior Film, insieme a quello per la sceneggiatura e alla miglior attrice non protagonista. Eppure, a leggere questa lista, per quanto la qualità complessiva dei nominati fosse molto alta, non si può fare a meno di pensare che nessuno di questi film avesse la caratura di Gravity. Potremmo pensare che l'errore sia stato quello di portare in primo piano l'esperienza della visione a scapito dei contenuti, troppo metaforici e a primo impatto banali, per poter dare al film di Cuarón una considerazione ancora maggiore. Ecco che l'Academy, al di là dello spettacolo visivo, ha preferito un film sicuramente meno coraggioso e meno innovativo come 12 anni schiavo, che rispecchia di più la classicità del film drammatico di stampo autobiografico con un forte intento sociale. Lontano dall'essere un film di fantascienza o un semplice spettacolo cinematografico, Gravity dimostra di poter essere un film con qualità narrative nascoste: raffinato nei temi, dal sapore universale. Forse proprio per questa sua qualità davvero superiore, la vittoria mancata all'Oscar al Miglior Film non è davvero una sconfitta. Più che in una statuetta dorata, la forza di un film si ritrova nell'emozione che sa scaturire, nella possibilità di rivederlo, nel narrare la "gravità" dell'esistenza, unendo lo spettacolo all'esistenzialismo. Più che il film a meritare riconoscimenti maggiori, dovremmo essere noi spettatori a meritarci più film come Gravity.