In un panorama cinematografico tendente alla monotonia come quello italiano, la cui unica differenziazione basica è tra cinema d'autore e cinema commerciale, una personalità artistica poliedrica come quella di Gabriele Salvatores rappresenta un'eccezione rara che non è possibile classificare in una sezione o nell'altra. E questa flessibilità, come la difficoltà di identificarlo come autore, non è certo un elemento negativo ma mette in evidenza l'elasticità con cui il regista è passato con naturalezza da un genere all'altro cambiando forma, linguaggio e intensità del racconto riuscendo, allo stesso tempo, a vincere un Oscar e a raccontare storie per il grande pubblico.
Insomma, Salvatores, come ogni cineasta, da forma a quelle che sono le sue suggestioni ma, a differenza di molti altri, non perde di vista il pubblico cui si rivolge coinvolgendolo nelle sue numerose fantasie attraverso uno stile non artefatto e diretto. In questo modo ha firmato la così detta trilogia della fuga, si è addentrato in un periodo fantascientifico con Nirvana, per poi diventare sperimentale con Denti e Amnèsia. Inoltre ha diretto l'unico videoclip di Fabrizio De Andrè, mentre con Io non ho paura ha costruito un intenso racconto d'infanzia e crescita per poi ritrovare un tocco più leggero con Happy Family. L'esperienza di Educazione Siberiana, tratto dal romanzo omonimo di Nicolas Lilin non é stata esattamente positiva sul set come al botteghino, ma con Il ragazzo invisibile, in sala dal 18 dicembre, prova a trovare quelle note un po sognanti e sperimentali che lo hanno caratterizzato.
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Così, attraverso la vicenda di Michele, un tredicenne introverso e timido di Trieste, sperimenta l'impensabile per il panorama italiano, ossia il genere comic costruendo un supereroe tutto europeo che non non deve nulla ai suoi illustri colleghi a stelle e strisce. Il suo potere segreto è l'invisibilità, attraverso il quale diventa finalmente visibile agli occhi dei compagni, mentre quello di Salvatores, come lui ha simpaticamente ammesso, è ancora oggi l'Oscar vinto con Mediterraneo nel 1992.
Da Marrakech a Mediterraneo, inizia il lungo viaggio
Per Salvatores la sua potrebbe essere una generazione in "cammino" o, se vogliamo provare una visione più psicologica, in fuga dalla propria realtà. Teorie e interpretazioni personali a parte, è un dato di fatto che per gli esordi cinematografici il regista, napoletano di nascita e milanese di adozione, ha scelto di mettere in viaggio i suoi protagonisti. Prima tappa programmata nell'ormai lontano 1989, è Marrakech express, simbolo di quello che sarebbe stato il suo cinema per i successivi quattro anni. Ad affiancarlo un team di attori/amici, tra cui Diego Abatantuono, Fabrizio Bentivoglio e Giuseppe Cederna, tutti coinvolti in una traversata all'insegna della fratellanza maschile dedicata all'ultima generazione con i ricordi di una televisione in bianco e nero. Qui, come poi nel triangolo amoroso di Turnè l'anno successivo, saltano agli occhi degli elementi narrativi comuni come la forza del gruppo, nonostante differenze varie, la composizione del cast in maggioranza maschile, la riscoperta di se anche attraverso gli occhi dell'altro, il viaggio e l'immancabile partita di pallone con cui ristabilire equilibri e rinsaldare legami. Il tutto narrato con un tono leggero e sognante in grado di rendere un film come Mediterraneo, ad esempio, autoriale senza la pesantezza attribuita al termine. E la forza iniziale del cinema di Salvatores è stata proprio la chiarezza espressiva e la grande comunicabilità con cui si rivolge alla sua generazione costruendo, allo stesso tempo, un successo commerciale inaspettato. Il fatto è che le sue non sono storie criptiche o esclusive ma, ispirandosi alla vita e agli uomini, a questi somigliano e a loro si rivolgono.
La rivoluzione Cyberpunk
Dopo l'ultimo viaggio a Puerto escondido ed una toccata nel Sud, con cui tenta una denuncia della situazione politica e sociale dell'Italia dal punto di vista degli emarginati e dei disoccupati, Salvatores scopre il futuro con un film impensabile per la visione produttiva dell'Italia alla fine degli anni 90. Si tratta di Nirvana, realizzato in co-produzione con la Francia e con un cast tra cui spiccano i nomi di Christopher Lambert e Emmanuelle Seigner accanto a quelli di attori che, ormai, sono diventati elementi della sua famiglia. Con questo film, Salvatores porta il nostro cinema nel mondo quasi inesplorato della fantascienza e degli effetti speciali, dimostrando che, volendo, anche l'impensabile può essere realizzato. Certo è che, come lui ha dichiarato, a quel tempo nessuna ha avuto il coraggio di opporsi al progetto a causa di quel famoso Oscar all'attivo, nonostante tremassero alla sola idea. Sta di fatto che Nirvana, presentato fuori concorso al Festival di Cannes, non ha mai conquistato lo scetticismo dei critici, abituati probabilmente allo stile più essenziale e narrativamente classico espresso fino a quel momento, ma ha rappresentato il più grande successo commerciale di Salvatores, oltre la pellicola italiana di fantascienza che ha realizzato i migliori incassi.
A questo punto è chiaro che da questo regista, non semplice da catalogare, ci si deve aspettare una certa curiosità che lo porta ad esplorare generi diversi. Così, abbandonate le atmosfere futuribili, continua una sorta di sperimentazione con Denti e Amnesia, entrambi interpretati da Sergio Rubini. Questa volta l'impatto sul pubblico è meno forte, probabilmente a causa di vicende, almeno nel caso del primo film citato, forse troppo simboliche. In Denti, infatti, tratto dal romanzo di Domenico Starnone, Antonio soffre di un forte complesso a causa dei suoi incisivi, che, secondo il suo punto di vista, gli rovinano il sorriso. Ma quando, una volta diventato adulto e con un divorzio alle spalle, uno dei due denti si rompe per lui iniziano una serie di sventure con i dentisti che lo riporteranno all'infanzia. Con Amnesia, invece, si cerca di tornare al passato grazie alla presenza di Diego Abatantuono e di una località esotica come Ibiza. Al centro della vicenda, però, ci sono vari personaggi tra cui una vera e propria tribù di centauri, lo squattrinato proprietario di un bar sulla spiaggia e una valigetta contenente 4 kg di cocaina intorno al quale si ritroveranno tutti.
Il cinema nella letteratura da Io non ho paura a Educazione Siberiana
La letteratura e il cinema hanno un rapporto prioritario e controverso da sempre. Però, se per un regista è semplice trovare ispirazione tra le pagine di un romanzo, non è altrettanto immediata la realizzazione di un'opera visiva efficace tanto quanto la sua fonte. E a quel punto si cade nella solita diatriba, meglio il film o il libro? Per Salvatores, però, questo non ha mai rappresentato un deterrente. Anzi, negli anni della sua maturità artistica ha iniziato a confrontarsi con vari romanzi, ottenendo risultati ovviamente alterni. Con Nicoló Ammaniti, in particolare, sembra avere un rapporto di grande comprensione. Nel 2003, infatti, porta sul grande schermo il suo Io non ho paura, dirigendosi verso un cinema autoriale dalla forte ambientazione dove l'uso dell'immagine e della luce, come dell'oscurità, caratterizza gran parte del film. Al centro della narrazione, che si svolge nel sud Italia, ci sono Antonio e Filippo, due bambini a confronto con un mondo di adulti che non li tutela ma, anzi, li minaccia costantemente. Il primo è il figlio di un camionista spesso assente, mentre il secondo è stato rapito da una banda in previsione di un cospicuo riscatto.
Questa avventura di scoperta e liberazione dal mondo violento porta Salvatores nuovamente in lizza per l'Oscar come miglior film straniero, mentre si aggiudica senza problemi il David di Donatello. La collaborazione con Ammaniti continua qualche anno dopo, nel 2008, con Come Dio comanda, con Filippo Timi e Elio Germano, dove torna la tematica dell'infanzia e adolescenza disagiata. Ma è con Quo Vadis, Baby? che Salvatores insegue la modernità, riuscendo ad attrarre anche un canale televisivo come Sky, che si affretta a produrre successiva miniserie. Ispirato da una battuta di Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi e dal romanzo di Grazia Verasani, Salvatores si getta nuovamente nella sperimentazione costruendo un noir sui generis fatto di atmosfere dark e claustrofobiche e mettendo per la prima volta un personaggio femminile, interpretato dall'attrice e musicista Angela Baraldi, al centro dell'azione.
Chiude, per ora, questo riassunto di una carriera sempre a metà tra cinema d'autore e successo commerciale l'esperienza di Educazione Siberiana. Ad essere onesti il film non rappresenta una tappa fondamentale, né dal punto di vista della critica né da quello dei risultati al botteghino. Dopo un ottimo primo week end, probabilmente spinto dalla fedeltà degli spettatori e dalla curiosità del nuovo progetto ben pubblicizzato, l'interesse cala e la storia non riesce proprio ad entrare nel cuore della gente. Così, nonostante la regia sia ineccepibile, il film mantiene una certa fredda distanza ed è difficile rintracciare dietro la vicenda di Kolyma e Gagarin, ragazzi della Moldavia Orientale "educati" ad una vita di violenza attraverso uno stretto codice comportamentale, lo sguardo delicato, profondo e sornione di un regista capace di far impazzire il botteghino, di vincere un Oscar e di ottenere i favori della critica. E tutto con la stessa apparente incredulità.